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Dal Pci di Berlinguer al Pd di Renzi: breve storia di una fine annunciata

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Che fine ha fatto la sinistra nei quasi tre mesi che hanno portato alla formazione del Governo Conte? Nella sostanza è scomparsa. Complice la strategia renziana, volta a lasciar fare i vincitori per dimostrarne le contraddizioni e le incapacità, il Pd è praticamente uscito di scena. Non a caso le televisioni sono state invase dagli esponenti del governo giallo-blu. E non per qualche diavoleria mediatica pensata dai rispettivi spin doctor, ma perché la presenza di Salvini e Di Maio faceva impennare gli ascolti. Di Renzi e Martina neanche l’ombra.

La crisi della sinistra nostrana non è certo imputabile a questi ultimi. Sarebbe sbagliato pensarlo. Sia perché la sinistra è in crisi praticamente ovunque, sia perché una situazione di questo genere affonda le sue radici nel lungo – direi lunghissimo – periodo. Per capirlo serve un passo indietro importante. Occorre ritornare alle ultime fasi di vita del Pci e più precisamente al tardo Berlinguer. Il leader del Pci, esaurita la solidarietà nazionale con l’assassinio di Moro, scommette tutto il suo patrimonio politico sulla questione morale e sulla diversità comunista. Due parole essenziali per il futuro del partito che, allentato il legame con l’Unione Sovietica e con la sua morente ideologia, gioca una partita sul piano della moralità per sopperire ad un grave vuoto strategico e programmatico. Il tutto per sconfiggere Dc e Psi che, seppur traballanti, mantengono il potere. Con la morte di Berlinguer, anche per mancanza di personale politico di livello, il Pci prosegue il suo arroccamento difensivo in chiave moralistica. Dopo la caduta del Muro di Berlino questo atteggiamento si fa sempre più marcato per tamponare la crisi politica nata dal crollo del marxismo-leninismo, che aveva alimentato l’ideologia del Partito comunista. Le scelte di Occhetto fanno il resto, lasciando il partito a metà del guado, senza definire compiutamente l’identità del neonato Pds. Grazie alle inchieste di Mani Pulite, però, la questione morale si fa questione politica e aiuta il Pds a riposizionarsi. Infatti, il giacobinismo giustizialistico venato di moralismo sfrenato si adatta perfettamente ad un’Italia scossa dalla rivoluzione giudiziaria di Mani Pulite. Proprio a causa delle indagini gran parte della Dc esce dall’agone politico, insieme a tutta la sinistra riformista socialista. Insomma, il Pds batte nelle aule di giustizia, e non nello scontro politico-elettorale, sia la Dc che l’odiato Psi.

La strada verso il trionfo elettorale per i postcomunisti sembra dunque spianata. Ma la discesa in campo di Berlusconi fa saltare i piani del neonato Pds, segnando una discriminante decisiva per gli anni a venire: l’antiberlusconismo. Proprio l’odio antropologico e politico nei confronti di Berlusconi permette ai postcomunisti di sviluppare il moralismo maturato dal tardo Berlinguer. La sinistra, in questa fase, non si definisce per i suoi elementi propositivi, magari riformistici e liberali, ma per il suo astio nei confronti del Cavaliere. In questo processo – culminato con le elezioni del 4 marzo – perde gradualmente il legame con i ceti popolari non riuscendo a cogliere gli importanti mutamenti derivanti dalla globalizzazione e dalla quarta rivoluzione industriale. Il rapporto con il Paese reale si fa sempre più debole fino ad azzerarsi. Anche la nascita del Pd non colma questo gravissimo iato. Soprattutto perché il Partito democratico, nato nel 2007, non riesce ad unire armonicamente le due culture politiche che lo compongono: la cultura democristiana e il lascito comunista. L’identità e il programma della nuova creatura rimangono ampiamente ambigui ed incerti. I colpi di mano ai danni di Prodi e i continui contrasti tra Renzi e gli ex comunisti (Bersani e d’Alema in primis) ne sono la chiara dimostrazione.

Negli anni più recenti, superato brutalmente sul fronte giustizialistico e anticasta dal Movimento 5 Stelle, Il Pd si è concentrato quasi esclusivamente sui diritti – in modo molto generico e senza alcuna visione di fondo – e sull’immigrazione, di cui sembra essere divenuto cultore. Ma sugli italiani, a quanto dicono i risultati delle ultime consultazioni, questi temi non hanno fatto presa. Soprattutto sui ceti popolari e sul ceto medio che hanno pagato maggiormente le conseguenze della crisi economica. Non è un caso che nei centri urbani il Pd abbia raggiunto percentuali più che discrete e che sia crollato nelle zone periferiche. Ancor più preoccupante è la percentuale riscossa dal Pd nelle elezioni del 4 marzo: un 18,7 per cento, paragonabile solo al 16,1 ottenuto dal Pds nel 1992, dopo la caduta del Muro di Berlino e l’importante scissione di Rifondazione comunista.

La situazione è effettivamente drammatica e non si vedono soluzioni praticabili all’orizzonte. La proposta del Fronte Repubblicano avanzata da Calenda potrebbe essere interessante ma al momento sembra l’astuta trovata di un’élite per sopravvivere ai rivolgimenti politici in atto. Insomma, il Pci-Pds-Ds-Pd, da partito dei ceti popolari si è trasformato nel partito esclusivo delle élite. Un’egemonia di cui Gramsci non andrebbe fiero.

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