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Pd né unitario né plurale, sempre più a sinistra: e se non fosse quello di Salvini il “suicidio perfetto”?

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Certo, i sondaggi non sono voti elettorali, ma quelli “seri” influenzano pesantemente la politica. Si può fare una media fra i più accreditati; oppure tenerne fermo uno, ripetuto periodicamente, per far conto delle percentuali di volta in volta assegnate e delle variazioni in più o in meno verificatesi nell’intervallo di tempo. E proprio le variazioni segnalate dal sondaggio settimanale di La7 questo lunedì 23 settembre, rispetto al precedente 16 settembre, mi hanno fatto nascere un sospetto che, a dire il vero, mi frullava del tutto inspiegabilmente dentro la testa. Cosa ci ha detto da ultimo l’oracolo Mentana? Bene, a proposito del Pd ci ha detto che la sua percentuale è del 19,4 per cento, con una variazione in meno del 2,1 per cento, certo più che compensata per il Governo giallo-rosso dalla nuova presenza costituita da Italia viva, data al 5,4 per cento, ma pur espressione di una significativa contrazione di quello che una volta veniva chiamato “il partitone”.

Ora devo esternare il mio sospetto, niente di più, ma in uno scenario in cui tutto può succedere, vale quanto ogni altro avanzato in questo tiro a segno a prenderci cui si è ridotto il gioco delle previsioni. A proposito del colpo di teatro messo in scena da Matteo Salvini in quell’8 agosto, ormai assurto a dato storico, si è straparlato di un “suicidio perfetto”; ma potrebbe essere che, invece, si debba parlare di una “induzione al suicidio” effettuata nei confronti anzitutto del Pd, punibile anche se nei termini di quel che sarà il giudizio del Giudice delle leggi.

Intanto, bisognerebbe ricordare quanto prospettato non molto tempo fa da tutto un corteo di opinionisti, che cioè Salvini si sarebbe liberato del peso di fare una finanziaria alla fin fine imposta dall’Europa, come era già successo, lasciandolo a qualcun altro, cioè precipuamente ad un partito “responsabile” come il Pd. Non si capisce perché almeno costoro non si rallegrino del fatto che sia successo quanto previsto, dovendo però dare per scontato che il suddetto onore è anche un onere, il cui eventuale costo in termini di consenso ricadrà sulle spalle dello stesso Pd, con riguardo sia alla finanziaria sia alla immigrazione, cui il recentissimo accordo di Malta dovrebbe dare un principio di risposta, peraltro al momento avvolto in un denso e impenetrabile fumo.

Quel che c’è da mettere in conto è il netto spostamento a sinistra del Pd, reso emblematico dall’uscita dal partito di Matteo Renzi, ma consacrato a piene parole dallo stesso presidente del Consiglio, che, alla festa di Articolo uno, ha svelato pubblicamente il suo originario orientamento, da cristiano di sinistra, riportato alla luce con una perfetta scelta di tempo, da abile contorsionista quale si è rivelato, con l’ovvio plauso convergente di Massimo D’Alema e Romano Prodi. Ora, questo spostamento può benissimo essere non gradito da un Paese tendenzialmente portato verso il centro-destra, tanto che Berlusconi ha lucrato il beneficio elettorale di un anti-comunismo non del tutto archiviato; e Prodi ha vinto due volte in virtù di una coalizione aperta sul centro, che poi, almeno una volta, l’avrebbe tradito proprio nella sua componente di sinistra.

Zingaretti continua ostinatamente a ripetere la sua giaculatoria di un Pd unitario, plurale, a vocazione maggioritaria; ma questa non è più salvifica, tutt’al più scaramantica. Oggi come oggi, a stare alla percezione testimoniata drammaticamente dalla differenza negativa sopra evidenziata, che ovviamente risente degli avvenimenti della settimana precedente, il Pd non è più niente di tutto ciò. Non è più unitario, non solo per l’uscita di Renzi, ma per l’esistenza di correnti bel strutturate e visibili; non è più plurale, perché non può essere definito di centro-sinistra, meno che meno, a vocazione maggioritaria, né di per sé né per la sua capacità di aggregazione, tanto che oggi sommandogli Sinistra, Verdi, Più Europa, raggiunge solo il 30,8 per cento. Il che spiega perché il Pd stia contrabbandando la riduzione del numero dei parlamentari con una legge elettorale nettamente proporzionale.

Un sospetto non è sufficiente a motivare una sentenza, ma certo lo è a giustificare una istruttoria ulteriore, che avrà come suo elemento estremamente significativo il risultato elettorale dell‘Umbria, dove il Pd, consapevole della sua debolezza, ha sollecitato il soccorso dei 5Stelle, dato con un vistoso aggiramento del proprio statuto. Ma questo soccorso è il sintomo di quel processo di trasformazione del movimento in partito, secondo il disegno di Conte, che però ha visto reagire prontamente Di Maio, con l’affermare che il caso Umbria non costituisce affatto un precedente. Certo è che questo processo ha un costo, quello di sovrapporre i due elettorati, sì da renderli altamente concorrenziali. Il risultato elettorale dell’Umbria ci dirà due cose: la prima, qual è la maggioranza reale in una regione estremamente significativa per la sua storia passata, segnata dalla sinistra, e per la sua collocazione geografica, addossata al Nord; la seconda qual è l’effettiva tenuta del Pd in una competizione vera e propria.

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