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Ecco perché di Brexit occorre parlare: non sono solo “affari loro”, come ci raccontano, in gioco anche il futuro dell’Ue

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Mercoledì pomeriggio, nel corso dell’appuntamento quotidiano con Focus economia sulle frequenza di Radio 24, Sebastiano Barisoni ha commentato così la richiesta di un ascoltatore: “Davvero volete parlare ancora di Brexit?”. La risposta, almeno per noi, è sì e la cosa dovrebbe interessare anche il vicedirettore dell’emittente di Confindustria: perché ci sono di mezzo i rapporti commerciali delle imprese italiane con il Regno Unito, i mercati finanziari e, soprattutto, i destini dell’Unione europea. La carne al fuoco non manca e non è mancata in questi mesi convulsi di trattative tra Londra e Bruxelles: ma il problema di fondo è l’approccio continentale all’esito delle votazioni del referendum britannico del giugno 2016, precocemente – e prevedibilmente – archiviato come fenomeno populista, irresponsabile e circoscritto a quei bizzosi degli inglesi.

Prova ne è, di questo atteggiamento stuck up, anche il tweet di Carlo Cottarelli dello scorso 15 gennaio, quando Westminster ha rimandato al mittente l’accordo presentato da Theresa May: “Il Parlamento britannico boccia l’accordo sulla Brexit. E ora? (Dedicato a chi pensa che uscire dall’Europa sia facile)”. Un pensiero che racchiude l’inviolabilità del modello europeo – che poi l’Europa sarebbe un concetto geografico, non politico – e che non mette nemmeno in conto di porsi altri interrogativi: come mai i britannici hanno deciso di uscirne? Perché altrove le forze politiche antisistema continuano a guadagnare terreno? Perché l’Ue risulta così antipatica tra molti dei suoi cittadini? La favola del popolo ignorante e incompetente è, per l’appunto, una favola che a furia di essere ripetuta ai quattro venti finisce per non convincere più nemmeno chi la propaga.

“La realtà è che tutti stanno tirando su le frontiere nazionali perché non hanno fede in quella europea. Credo che sia un processo inarrestabile”, ha analizzato lo storico Niall Ferguson, non certo un populista, intervistato martedì dal Corriere della Sera, affrontando con attenzione e senza preconcetti la questione del flusso migratorio nel Mediterraneo centrale. A dispetto di convegni, pubblicazioni, tavole rotonde e campagne di sensibilizzazione, quell’Unione disegnata e progettata dalle sue istituzioni esiste solo nelle direttive e nei regolamenti, ma non nel sentire comune di chi vi abita. L’identità è solo sulla carta e quindi non deve stupire – e non deve essere relegata alla voce populismo – l’insofferenza che si respira a pieni polmoni in vista delle prossime elezioni europee.

Brexit ha dimostrato che la coperta è piuttosto corta, cogliendo impreparata la classe dirigente (compresa quella britannica che ha sbandato e non poco negli ultimi due anni e mezzo), la quale ha tradito atteggiamenti ben poco liberali e parecchio punitivi: l’Irlanda del Nord, si vociferava nei corridoi della Commissione europea, è il prezzo che il Regno Unito deve pagare per l’affronto. Quindi sì, parliamone di questa Brexit, possibilmente senza pregiudizi, dal momento che ci riguarda da vicino più di quanto possiamo pensare: uscire dall’Ue non vuol dire per forza isolarsi e alzare muri soltanto perché qualche movimento cavalca l’onda lunga dell’immigrazione, ma può essere un modo per aspirare ad altro, a qualcosa dai confini più larghi senza però smarrire la propria identità nazionale a discapito di uno sovrastruttura burocratica sempre più ingombrante. Per evitare nuove crepe che ne sancirebbero il crollo con dolorose conseguenze per tutti coloro che abitano nel palazzo (Italia compresa), i cultori di questo modello europeo dovrebbero convincersi a scendere dai loro piedistalli e iniziare ad ascoltare i suggerimenti di qualche esperto. Tipo un muratore.

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