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Perché le guerre democratiche (o “umanitarie”) non funzionano

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Ancora una volta, dunque, aveva ragione Donald Trump. Pesantemente criticato per aver deciso di ritirare le truppe Usa e alleate dall’Afghanistan, il suo successore democratico Joe Biden ne ha subito seguito le orme. Riconoscendo che si tratta dell’unica decisione possibile, giacché Biden ha pure detto con onestà che non spetta agli americani esportare la democrazia, i diritti e la parità per le donne.

Tanto più in un Paese dove il fondamentalismo islamico è una sorta di senso comune, e che nessuno – neppure i sovietici e i britannici all’apice della loro potenza imperiale – è mai riuscito a conquistare. Biden così rovescia, seguendo la strategia di Trump, la politica delle precedenti amministrazioni Usa. E soprattutto di quella di Obama, nella quale le linee di politica estera erano fissate da Hillary Clinton.

Se vogliamo capire l’essenza delle “guerre democratiche” (o umanitarie), è utile leggere un libro di Francis Fukuyama, il politologo nippo-americano divenuto celebre per aver propagandato il concetto di “fine della storia”. Lo fece nel noto volume “La fine della storia e l’ultimo uomo”, pubblicato in Italia da Rizzoli.

In seguito Fukuyama ha scritto un altro saggio importante: “Esportare la democrazia. State-building e ordine mondiale nel XXI secolo”. Tradotto nel nostro Paese dall’editore Lindau, è oggi reperibile con una certa difficoltà. Vale tuttavia la pena di parlarne poiché ci fornisce un quadro chiaro dei criteri che hanno indotto – e inducono tuttora – la comunità internazionale occidentale guidata dagli Stati Uniti a intervenire in modo diretto, soprattutto militarmente, quando si giudica che uno Stato minacci la stabilità mondiale. O anche nei casi in cui detta stabilità venga messa in pericolo da Stati “collassati”, non più in grado di gestire i loro affari interni.

Accade allora, secondo Fukuyama, che Usa e comunità occidentale abbiano non tanto il diritto, bensì il dovere di intervenire quando crisi di quel tipo si manifestano. Al fondo si cela una concezione che implica la diffusione della democrazia liberale sul piano globale. Ne risulta essenziale, a suo avviso, che siano sempre e comunque gli Usa a intervenire, ferma restando la loro posizione di leadership dovuta a fattori politici, economici e, soprattutto, militari. “La logica della politica estera americana – egli scrive – dall’11 settembre sta trascinando gli Stati Uniti in una situazione in cui o essi si assumeranno la responsabilità di governare gli Stati deboli, oppure consegneranno questo problema alla comunità internazionale”.

In un discorso tenuto nel 2002 a West Point, George W. Bush negò recisamente che gli Usa coltivassero sogni imperiali, ma non esitò ad ammettere che una dottrina allargata della guerra preventiva era in grado di porre gli Stati Uniti nella condizione di governare popolazioni potenzialmente ostili nei Paesi che li minacciano con il terrorismo. Ecco quindi Afghanistan e Iraq. Tuttavia la presenza di organizzazioni come Isis e al-Qaida (o i talebani afghani) rende tale compito assai più difficile del previsto. La lotta va estesa a una miriade di contesti territoriali seguendo l’ondata degli attacchi terroristici, da Mombasa a Bali a Riad. Se in quelle nazioni i governi locali non risultano in grado di fronteggiare il fenomeno, “occorre stimolare dall’esterno la costruzione dello Stato in Paesi con gravi disfunzioni interne”.

Eccoci dunque giunti al concetto di state-building, il vero nucleo del libro. Gli Stati deboli o addirittura “collassati” (si pensi, per citare un solo esempio, alla Somalia) rappresentano una minaccia non solo per se stessi, ma anche per l’intero scenario mondiale. Gli interventi umanitari degli anni ’90 del secolo scorso portarono all’estensione di un potere imperiale internazionale di fatto sugli “stati falliti” del mondo. Gli interventi furono spesso guidati dalla potenza militare americana, ma seguiti, nel nation-building, da un’ampia coalizione di Paesi, principalmente europei, più l’Australia e il Giappone.

Ma come mettere in pratica il nation building in nazioni che non hanno le tradizioni democratiche occidentali e, per di più, sono spesso recalcitranti ad adottarle? Fukuyama non esita a notare che, forse, gli Stati si possono costruire deliberatamente ma, “se da questo si genera anche una nazione, è più questione di fortuna che di progettazione”. Dal che consegue che state-building e nation-building non sono affatto la stessa cosa, e gli europei sembrano esserne più consapevoli degli americani.

C’è da chiedersi, a questo punto, se l’internazionalismo liberale che ha sempre avuto un ruolo di rilievo nella politica estera degli Stati Uniti possa davvero trovare sbocco e soddisfazione in una strategia come quella appena delineata. Perché esiste, com’è noto, anche l’eterogenesi dei fini. È rarissimo che una politica estera raggiunga con precisione proprio gli obiettivi che si proponeva di conseguire.

Passando agli anni più recenti, vediamo che il quadro non muta molto quando il bastone del comando passa da un presidente americano a un altro. La strategia delle “primavere arabe” promossa dal duo Barack Obama-Hillary Clinton ha dapprima suscitato entusiasmi stellari, per poi diventare fonte di dubbi e recriminazioni. Non era affatto chiaro se davvero si trattasse di “primavere”, visto che in Tunisia ci sono stati seri rischi di veder regredire la condizione femminile, mentre quasi ovunque nell’area l’instabilità era cresciuta.

Un quadro, insomma, tremendamente complicato, che il volume di Fukuyama ha il merito di tratteggiare con lucidità senza tuttavia fornire risposte convincenti. Non è sufficiente dire che “le nazioni devono essere in grado di costruire istituzioni statali non solo all’interno dei propri confini ma anche in altri Paesi più disorganizzati e pericolosi”. Il problema è “come” farlo e con “quali strumenti”. Sarebbe forse più ragionevole ritornare a un sano realismo politico, senza sbandierare nobili ideali. Ed è proprio ciò che ha fatto il tanto vituperato Donald Trump. In questo caso Joe Biden è stato onesto, affermando a chiare lettere che gli Usa non sono andati in Afghanistan per costruire una nazione, e nemmeno per unificarla. Poiché nessuno c’è mai riuscito, tanto vale essere realisti e perseguire obiettivi più limitati.