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Potere assoluto: ecco perché il decreto di Natale costituisce un pericoloso precedente

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L’ultimo decreto legge varato dal Governo italiano per limitare la libertà di circolazione dei cittadini in occasione delle festività natalizie non è stato oggetto, a mio giudizio, di approfondite valutazioni giuridiche. La mia tesi di fondo è che siamo stati posti di fronte a un pericolosissimo precedente, tollerato con troppa facilità in nome della necessità di contrastare la diffusione del coronavirus.

Cominciamo, innanzitutto, con alcune riflessioni sulla natura del provvedimento approvato.

L’Esecutivo questa volta ha deciso di adottare un atto avente forza di legge e non già un decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, vale a dire un atto amministrativo. Molti osservatori hanno giudicato positivamente il cambio di passo del Governo perché le libertà personali dovrebbero essere limitate solo da fonti giuridiche di rango primario diretta emanazione del Parlamento sovrano.

I cittadini però non possono impugnare il decreto legge dinanzi ai Tribunali amministrativi e non possono pretenderne l’immediata sospensione dell’efficacia, come invece è possibile fare con i ricorsi avverso i Dpcm.

Nelle ultime settimane il TAR del Lazio e il Consiglio di Stato hanno più volte bacchettato il capo del Governo per avere adottato decreti con i quali sono stati imposti obblighi e limitazioni delle libertà fondamentali attraverso modalità irragionevoli e sproporzionate. I cittadini hanno avuto la possibilità, in altre parole, di chiedere immediatamente alla magistratura amministrativa l’esame accurato della legittimità dei provvedimenti restrittivi delle libertà costituzionali, anche al fine di ottenere la sospensione tempestiva di ordini e limitazioni imposti con i Dpcm o di costringere il capo del Governo a un migliore riesame del potere esercitato.

L’adozione del decreto legge, invece, non permette al cittadino di usufruire di tale modalità di tutela delle libertà. Le disposizioni di legge non possono essere immediatamente sospese dai Tribunali, nemmeno quando con esse si riducono ai minimi termini le garanzie costituzionali. In questi casi il cittadino deve, prima impugnare la sanzione irrogata per avere violato il decreto legge, poi convincere il giudice della illegittimità costituzionale della norma limitativa della libertà; il Tribunale deve quindi inviare gli atti alla Corte costituzionale e questa ultima, infine, cancellare la norma dall’ordinamento giuridico. L’intero processo richiede non meno di due-tre anni di tempo, nel corso dei quali il Governo ha potuto esercitare sulle libertà fondamentali dei cittadini un potere che si rivela essere pressoché assoluto e incontestabile.

La dottrina costituzionale governativa ritiene che le garanzie sancite nella Carta fondamentale possono essere ristrette solo per mezzo della legge ordinaria e non tramite provvedimenti amministrativi. La tesi è però funzionale solo a rafforzare il potere di Governo e Parlamento in un’ottica che fa del costituzionalismo uno strumento del Potere e non una garanzia delle libertà individuali contro gli eccessi dello Stato e della pubblica amministrazione. Il Parlamento italiano aveva trovato, peraltro, una soluzione equilibrata proprio per fare fronte all’emergenza Covid. Le Camere hanno disciplinato con estrema precisione il perimetro all’interno del quale il capo del Governo avrebbe potuto esercitare, tramite decreto, i poteri di limitazione delle libertà fondamentali. Sono state cosi assicurate sia l’investitura dei rappresentanti della nazione nella redazione della disciplina dell’emergenza, sia la possibilità di agire in maniera flessibile, tramite i Dpcm, sulla base delle circostanze di fatto che sono più volte mutate.

Con l’ultimo decreto legge, invece, il Governo si è posto al riparo da qualsiasi sindacato giurisdizionale immediato e ha relegato 60 milioni di cittadini a una condizione, di fatto, di invincibile sudditanza. A pensare male si potrebbe ritenere che siano state le ultime pronunce della giustizia amministrativa, per nulla tenere nei confronti degli atti adottati dal presidente Conte, a convincere il Governo ad approvare un decreto legge che nei fatti, è risultato, almeno nell’immediato, inattaccabile.

Molti si stracceranno le vesti davanti a quella che giudicheranno sbrigativamente come la solita solfa libertaria, ma un fatto è incontestabile: il potere esecutivo ha ristretto oltremodo le libertà di movimento e di circolazione, mentre al cittadino non è stata concessa nemmeno la possibilità di rivolgersi a un giudice per sindacare l’esercizio del potere governativo.

Ma non è finita qui.

Il decreto legge deve essere convertito dalle Camere entro 60 giorni dalla sua adozione. Il Parlamento potrebbe anche bocciare l’operato dell’Esecutivo e privare di ogni efficacia le norme liberticide. Ma ciò avverrebbe, nel nostro caso, solo dopo che lo stesso decreto legge avrà esaurito i suoi effetti e solo dopo che i cittadini italiani avranno finito di piegare il capo agli ordini del Consiglio dei Ministri. L’opinione del Parlamento Sovrano, in altri termini, potrebbe risultare del tutto ininfluente rispetto alla possibilità di tutelare effettivamente le libertà individuali. Anche in questo caso i costituzionalisti governativi in servizio permanente effettivo una giustificazione a portata di mano l’avranno: in caso di mancata conversione del decreto legge il Governo risponderà politicamente dinanzi alle Camere. Peccato però che la Costituzione dovrebbe essere lo strumento più efficace a disposizione degli individui per la tutela delle loro libertà contro gli abusi manifesti del Potere statale e non già un mero codice stradale per stabilire chi debba avere la precedenza fra Governo e Parlamento a massacro consumato.

Il decreto legge suscita, poi, numerose perplessità anche per il suo contenuto.

La Costituzione consente l’esercizio del potere legislativo al Governo solo per i casi di straordinaria necessità e urgenza. L’Esecutivo può legiferare, cioè, solo allorché il sopraggiungere di fatti straordinari determinino la necessità e l’urgenza d’intervenire immediatamente senza dovere  attendere le ordinarie procedure parlamentari.

Il Consiglio dei Ministri ha adottato il decreto legge, invece, in assenza delle condizioni previste dall’articolo 77 della Cost. Non sono stati né l’aumento dei contagi, né l’incremento dei ricoveri in terapia intensiva, né, infine, l’impennata dei decessi a rappresentare quelle sopraggiunte condizioni straordinarie che hanno determinato la necessità e l’urgenza di provvedere. Il Governo ha adottato un decreto legge per il “timore” che  l’esercizio delle libertà fondamentali di 60 milioni di cittadini potesse provocare un aumento della diffusione del coronavirus.

Il giorno che il Governo ha approvato il decreto legge quasi tutte le regioni erano stata classificate, in virtù della disciplina di legge ordinaria precedentemente approvata, zone gialle, aree all’interno delle quali cioè, sulla base dei dati dei contagi, dei ricoveri e dei decessi, si potevano ben esercitare le libertà di movimento e di circolazione. In assenza di alcun peggioramento epidemiologico l’Esecutivo ha imposto una radicale limitazione delle facoltà costituzionali sulla base di un semplice timore e di una mera previsione generalizzata della condotta dei cittadini italiani.

Per essere ancora più chiari: in Italia circa venti persone riunite attorno a un tavolo a Palazzo Chigi hanno ritenuto fosse meglio tenere agli arresti domiciliari 60 milioni di persone per mera “precauzione”, sotto minaccia di sanzioni e reprimende da parte di ben 70 mila agenti delle forze dell’ordine. Tutto ciò senza che il presidente della Repubblica abbia proferito parola, senza che il Parlamento abbia potuto fermare l’azione del Governo e senza che gli inermi cittadini abbiano potuto investire l’ordine giudiziario per reclamare la tutela delle loro libertà. Se non è un precedente di cui preoccuparsi questo.

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