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Prendere tempo ad ogni costo, ma fino a che punto il Quirinale può ignorare la crisi della maggioranza e le sue derive?

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Si deve prendere atto con grande rammarico di un modo di legiferare del tutto rovesciato rispetto a quello non solo logico ma anche corretto alla luce dello “spirito costituzionale”, cioè quello di far precedere un intervento modificativo al quadro generale in cui dovrebbe inserirsi: lo si è fatto per la riduzione del numero dei deputati e dei senatori e per il blocco della prescrizione dopo il primo grado di giudizio. Mal comune, mezzo gaudio verrebbe da commentare ironicamente, perché di questo è responsabile, in prima battuta, la maggioranza giallo-verde e, in seconda battuta, la maggioranza giallo-rossa, con a costante l’adesione alle tesi sostenuta dai 5 Stelle, come espressioni della loro stessa identità: nel governo Conte 1 a far da supporto è stata la Lega; nel governo Conte 2 a far da sostegno è stato il Pd.

Così, lasciati a se stessi, la riduzione dei membri della Camera e del Senato denuncia una deriva antiparlamentare, come espressione di una opzione per la democrazia diretta via informatica vis-à-vis di quella rappresentativa, tanto che la percentuale più elevata di una opinione pubblica largamente favorevole è costituita dai tifosi del c.d. “uomo forte” e del “superamento del Parlamento”. E, a sua volta, il blocco della prescrizione dopo il primo grado di giudizio rivela una vocazione giustizialista, tanto che trova esplicita conferma nella sua inserzione in una legge etichettata e pubblicizzata all’insegna dell’anticorruzione.

Dopo la bocciatura da parte della Corte costituzionale del referendum per la modifica in senso maggioritario della vigente legge elettorale (c.d. Rosatellum), la strada per sostituirla con una interamente proporzionale, provvista di una soglia di sbarramento del 5 per cento (c.d. Germanicum) sembra del tutto in discesa. Il che segna la fine della c.d. Seconda Repubblica, costruita proprio su una legge elettorale maggioritaria, così da rendere possibile l’immediata individuazione della coalizione vincente, con la alternanza al Governo di quella di centro-sinistra e del centro-destra, sotto la guida, rispettivamente, di Prodi e Berlusconi.  

Si torna alla Prima Repubblica, caratterizzata da una legge elettorale proporzionale, ma nonostante questo con una polarizzazione fra Dc e Pci, con quest’ultimo precluso dal Governo in forza della c.d. conventio ad escludendum. E proprio in forza dell’avvento della Seconda Repubblica, con una legge elettorale maggioritaria consacrata da una consultazione referendaria, il Pci, mutato il nome in Pds, ma soprattutto il volto in un partito sostanzialmente socialdemocratico, potrà accedere al Governo.  

Ora una legge nettamente proporzionale, con una soglia di sbarramento al 5 per cento, che non è detto non sia destinata a calare sotto la pressione di Leu, sembrerebbe dar spazio nel nuovo Parlamento, sicuramente a quattro partiti (Lega, Pd, 5Stelle, Fratelli d’Italia) e, probabilmente ad altri due (Forza Italia e Italia Viva). Il che significherebbe, a differenza della Prima Repubblica, rimettere al Parlamento la formazione di una maggioranza, con scarsa o nessuna trasparenza rispetto alla scelta fatta dal “popolo sovrano”, lasciando carta bianca ai partiti, anzi addirittura alle correnti e ai gruppi costituiti nel loro interno, incentivandone il “trasformismo”. Ne è precisa testimonianza questa legislatura, dove, sotto la guida dello stesso presidente del Consiglio, privo di qualsiasi conforto elettorale, si sono alternati due Governi, entrambi nettamente esclusi in campagna elettorale dai partiti che li hanno formati, perché allora considerati dagli interessati come contro natura: il Conte 1, con il Governo giallo-verde, 5Stelle e Lega; il Conte 2, con il Governo giallo rosso, 5Stelle e Pd. Ne è seguita una ondata di cambi di casacca, che, a prescindere da calcoli personali circa il futuro, si sono alimentati proprio alla perdita di identità rispetto ai programmi elettorali da parte di partiti costretti a coabitare da “separati in casa”.

Ora se la intenzione più o meno esplicita è quella di contenere o addirittura smorzare la deriva di destra che sembra prospettarsi per le prossime elezioni politiche, bene questa dipende dalla percentuale di voti che il centro-destra potrebbe conseguire, a meno che non si pensi ad una legge proporzionale regressiva, che oltre una certa soglia non conteggi più i voti. Esclusa quest’ultima ipotesi del tutto assurda, resta che, se oggi si votasse con il Germanicum in fieri, tenendo presenti i sondaggi più o meno convergenti, il centro-destra avrebbe una larga maggioranza sia alla Camera che al Senato.

La scommessa dell’attuale maggioranza non può essere che quella di guadagnare tempo per sgonfiare il centro-destra, ma per l’intanto a preoccuparla è la crisi di sopravvivenza che attanaglia i 5 Stelle, acceleratasi proprio nel passaggio dall’alleanza con la Lega a quella con il Pd. Questo nonostante il Pd si sia completamente adeguato ai voleri dei 5 Stelle, rinnegando le sue posizioni identitarie in tema di riduzione del numero dei parlamentari e di prescrizione.

Si dice, si ridice, si batte e si ribatte, da parte della maggioranza che la legislatura durerà fino al suo termine naturale, il 2023, nonostante qualsiasi sconfitta nella sequenza di elezioni regionali, a cominciare da quella dell’Emilia Romagna. Bene, ma niente a proposito della possibile ricaduta di tali sconfitte sulle attuali dirigenze dei 5 Stelle e del Pd, che il perdere più o meno malamente pezzi dello Stivale potrà o meno far fibrillare la stessa maggioranza parlamentare, ma certo farà saltare gli equilibri interni dei partiti al Governo. Si continua a sostenere che il presidente della Repubblica deve prendere atto di qualsiasi maggioranza si formi o si riformi in Parlamento, senza poterne sindacare la omogeneità e la tenuta. Il che non è assolutamente vero, anzi è possibile, con tutto il rispetto dovuto, avanzare riserve circa l’aver licenziato quest’ultima giallo-rossa, improvvisata nell’arco di pochi giorni, mentre quella giallo-verde aveva richiesto tre mesi. Tuttavia c’è in vista per il presidente della Repubblica, un’altra scelta ancor più impegnativa, cioè quella successiva alla conferma referendaria della riduzione del numero dei parlamentari e alla pubblicazione della nuova legge elettorale proporzionale. Permetterà che sopravviva un Parlamento reso del tutto anacronistico, fino a permettergli di eleggere il suo successore o ne proclamerà lo scioglimento? Dalla sua scelta dipenderà il futuro della Repubblica.

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