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Il primo Def gialloverde: il vero guaio non è il deficit né cosa dirà l’Ue, ma buttare dal balcone 20 miliardi

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Un rapporto deficit/Pil al 2,9 per cento per cinque anni, un’intera legislatura. No, tranquilli, non sono questi i numeri usciti giovedì sera dalla Nota di aggiornamento al Def del governo 5Stelle-Lega, ma per fortuna solo il sogno erotico di Matteo Renzi, raccontato al Sole 24 Ore non un’era fa, ma nel luglio 2017.

Tornando alla realtà, il numero che ha fatto passare un “venerdì nero” alla Borsa di Milano (soprattutto i titoli bancari) e alzare a livelli di guardia lo spread (e i tassi di interesse dei nostri titoli di stato) è il 2,4 per cento per tre anni. Resto convinto che 2,9 o 2,4, 1,6 o 2, molto più del numeretto magico a contare per i mercati è cosa vuoi farci con il deficit, cioè con i soldi in prestito che stai chiedendo. Facciamo finta che stiamo chiedendo un prestito a una banca. Cosa vuole farci, signor Federico? Comprare una casa? Aprire un’attività? No, sta rispondendo per nostro conto il governo gialloverde: ci servono per pagare le persone che non lavorano e per far smettere di lavorare alcuni signori di mezza età.

A prescindere dall’impennata o meno dello spread (qui non si fa il tifo per lo spread), che potrebbe mangiarsi in poche ore gran parte del nuovo deficit ancora nemmeno impiegato (a questi livelli, già certi maggiori oneri per 4 miliardi…), abbiamo appena buttato dalla finestra altri 20 miliardi di euro, dopo le decine, negli anni, buttati dal governo Renzi (gli 80 euro, il bonus giovani e le altre mance elettorali…) e da quelli prima di lui. Questo non per giustificare l’attuale governo, ma per ricordarci da dove veniamo: la via percorsa oggi da Movimento 5 Stelle e Lega è quella battuta per anni dagli altri partiti, che oggi non hanno titoli sufficienti né per indignarsi né per proporsi come alternativa. Una via preparata anche culturalmente emarginando nel dibattito pubblico, oltre che nelle istituzioni e nel mondo dell’istruzione, le già poche voci e idee davvero liberali. Certo, su chi arriva a peggiorare una situazione già compromessa dai suoi predecessori pesa una responsabilità ancora maggiore, se non altro perché ci si aspetta che sia consapevole degli errori del passato. Invece, il governo che si definisce “del cambiamento” si dimostra tale solo perché con maggiore “coraggio” (leggi: incoscienza) dei precedenti ci sta conducendo verso il baratro, e non perché si stia dimostrando capace di invertire la rotta.

Dei 33,5 miliardi che dovrebbe valere la manovra secondo la NaDef, circa 27 sono di ulteriore deficit rispetto al tendenziale, il doppio di quanto avrebbe voluto il ministro Tria. Ma ripeto: non si tratta del maggiore deficit in sé, o di cosa dirà l’Ue, ma del cosa ci vuoi fare. Tolti i 12,5 miliardi per neutralizzare le clausole di salvaguardia ed evitare gli aumenti Iva, 19,5 dei restanti 21 (10 il reddito di cittadinanza; 6-8 le pensioni anticipate; 1,5 i risarcimenti agli investitori “truffati”, o meglio avventati; 1,5 la flat tax per le partite Iva) sono puro assistenzialismo. Che vengano finanziati in deficit o che si trovino delle coperture in nuove entrate o minori spese, poco importa, si tratta comunque di soldi presi e buttati direttamente dalla finestra, o meglio in questo caso dal balcone…

Assistenzialismo che non ci possiamo permettere. Redistribuzione a vantaggio di pochi di una ricchezza mai creata. Di questo si tratta. Perché il miglior modo di aiutare chi è in difficoltà non è garantirgli un sussidio, ma un lavoro rimettendo in moto l’economia. Invece ciò che questo governo, esattamente come i suoi predecessori, sta facendo è garantire miseri ma costosi bonus, al prezzo di zavorrare ancor di più la nostra economia, impedendole di produrre quella ricchezza che sarebbe necessaria per potersi permettere anche una ragionevole e controllata dose di assistenza.

E come al solito, per fare di tutto un po’, sbriciolando le poche risorse a disposizione, si massimizzano i rischi in termini di tenuta dei conti pubblici, minimizzando gli eventuali (molto eventuali, in questo caso) effetti positivi in termini di crescita. Tutt’altra storia sarebbe investire il maggiore deficit per uno shock fiscale (la flat tax, per esempio, quella vera) in grado di far crescere l’economia, attrarre e creare ricchezza, offrendo così ai mercati un orizzonte realistico di riduzione di deficit e debito senza lacrime e sangue per i cittadini. Insomma, una posta che almeno valga il rischio.

Aspettiamo di vedere come le misure prenderanno forma nella manovra di bilancio, ma il reddito di cittadinanza – esattamente come i renziani 80 euro, anche il costo è identico – è una mancetta elettorale enormemente costosa senza nessun elemento concreto che induca a pensare a un meccanismo efficiente per reinserire i beneficiari nel mercato del lavoro regolare. Il ritocchino (altro che “superamento”…) della Fornero è anch’esso costosissimo (6-8 miliardi) a fronte di 400 mila neo pensionati (una nuova platea di veri e propri privilegiati).

L’unica misura che si salva, che sebbene con uno stanziamento minimo (1,5 miliardi), va almeno nella giusta direzione, è la flat tax del 15 per cento per circa un milione di partite Iva (professionisti e piccole imprese, vessati fiscalmente e senza tutele), che vengono spinte a guadagnare di più dall’innalzamento del limite di fatturato per l’accesso al regime agevolato. Ma anche qui, bisognerà vedere come la misura verrà strutturata in concreto nella manovra.

Sul fronte delle entrate, bene la cosiddetta “pace fiscale”: lo Stato incasserà in breve tempo una parte dei soldi che non avrebbe visto arrivare mai, se non dopo anni di contenziosi e spese, e oltre a qualche furbo potranno rimettersi in carreggiata molte persone rimaste ingiustamente imprigionate nelle maglie del fisco. Tagli alla spesa pubblica e investimenti per ora non pervenuti, bisognerà aspettare la manovra.

Sul piano politico, la vittoria che oggi cantano Di Maio e Salvini, che sul 2,4 hanno piegato il ministro Tria (da oggi, c’è da scommettere, non più eroe o martire per i giornaloni della “resistenza”), potrebbe rivelarsi una vittoria di Pirro, se la situazione economica del Paese dovesse peggiorare precipitosamente.

Per le opposizioni, un’occasione da non perdere, ma che temo verrà ulteriormente persa: passare dal catastrofismo, dal “forza spread!”, che di fatto abbassano l’asticella delle aspettative (basta che la catastrofe non si verifichi e il governo potrà presentare come un successo una performance mediocre) a critiche di merito sulla manovra, preferibilmente (mi rendo conto di chiedere l’impossibile) di impostazione liberale: meno tasse, meno Stato dove non serve (nell’economia).

Cosa può fare una Commissione europea a fine mandato, mentre ovunque nel continente imperversano le forze euroscettiche e anti-sistema? Non molto più che dimenarsi. Un approccio eccessivamente minaccioso e punitivo, sanzionatorio, rischia di fornire alibi e alimentare ancor di più il vittimismo nella narrazione populista a pochi mesi dalle elezioni europee.

Da una parte, una linea dura di Bruxelles e i siluri dei mercati rischiano di provocare un ulteriore backlash populista nelle urne; dall’altra, una linea morbida rischia di alimentare l’azzardo morale più di quanto non abbiano già fatto in questi anni flessibilità, sconti, paracadute e politiche della Bce. Un vero e proprio rebus che sarà difficile risolvere in tempi brevi.

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