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Putin ripiega e rilancia: la carta del Donbass e la battaglia delle narrazioni

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Nel giorno in cui il ministro della difesa russo annuncia il ripiegamento di alcune truppe dal confine con l’Ucraina, l’attenzione politica e diplomatica si sposta sulla Duma di Stato. Il parlamento di Mosca approva la proposta del Partito Comunista di rivolgere al presidente Putin un appello per il riconoscimento formale delle cosiddette “repubbliche popolari” del Donbass, ovvero le province ucraine filo-russe di Luganks e Donetsk. Si tratta dei territori contesi dell’est del Paese in cui dal 2014 è in corso un conflitto armato tra ribelli secessionisti finanziati dal Cremlino e esercito ucraino, che gli accordi di Minsk del 2014-2015 hanno tentato di ricomporre senza esito. Entrambe le parti si accusano mutuamente da anni del mancato rispetto delle condizioni stipulate, che sono peraltro interpretate in maniera diversa dai contendenti: specialmente controversi i punti sul grado di autonomia da concedere alle “repubbliche ribelli” e sulle modalità di svolgimento di future elezioni all’interno delle stesse. Il riconoscimento da parte di Mosca dell’indipendenza di Lugansk e Donetsk significherebbe di fatto la sconfessione definitiva degli accordi e un nuovo capitolo nelle relazioni tra i due Paesi, già esacerbate dallo schieramento massivo di truppe russe.

Il fatto che la decisione della Duma – che è dominata dal partito presidenziale Russia Unita e si muove sempre di concerto con il Cremlino – giunga contemporaneamente all’annuncio di un ritiro parziale degli effettivi militari, indica che è in corso una sorta di negoziato che dovrebbe condurre a disinnescare il rischio di un conflitto armato. I termini di questa trattativa, che si svolge tra Washington, Kiev e Mosca, con la partecipazione collaterale di alcune cancellerie europee (Parigi e Berlino su tutte, ma perfino Di Maio volerà nella capitale russa giovedì), non sono al momento chiari. Ma che il riconoscimento delle repubbliche filo-russe sia una carta che Putin si riserva di giocare nella complessa partita politico-diplomatica in corso, è perfino scontato. Vedremo con quali risultati, anche perché è improbabile che a Kiev accettino senza reagire l’ennesima opa russa su una parte dei suoi territori orientali.

Negli ultimi giorni si è intensificato un conflitto parallelo, una battaglia verbale che ha visto come protagonista soprattutto l’amministrazione Biden. A più riprese, per bocca del segretario di Stato Antony Blinken e del consigliere per la sicurezza nazionale Jack Sullivan, la Casa Bianca ha avvertito dell’imminenza di un’invasione russa, arrivando perfino ad indicare la data tra il 15 e il 16 febbraio (cioè tra ieri e oggi). Mentre scrivo non vi sono segnali concreti che sia in corso un’operazione del genere, dal che si dovrebbe dedurre che le informazioni che i servizi segreti americani hanno passato al presidente Biden erano prive di fondamento.

In realtà, ad un’analisi meno superficiale, l’escalation verbale degli ultimi giorni va inserita nel contesto generale degli avvenimenti. Putin accumula truppe al confine ucraino, lo circonda da tre lati (Bielorussia, territorio russo, Crimea de facto), usa la minaccia per negoziare con Nato/Usa una ridefinizione degli equilibri strategici e geopolitici in Europa Orientale, non ottiene risposte soddisfacenti ma è cosciente che un conflitto armato gli costerebbe troppo caro. Serve una via d’uscita onorevole, vendibile come una vittoria all’opinione pubblica russa e non interpretabile come un segno di debolezza dai suoi avversari. Washington percepisce che la pressione è tutta su Mosca, dichiara che in nessun caso la Nato interverrà direttamente, ma invia armi a Kiev a dimostrazione del suo sostegno alla causa ucraina. Contemporaneamente alza i toni diplomatici, fa capire che i russi possono attaccare da un momento all’altro e serve, volontariamente o no (il tempo dirà), su un piatto d’argento a Putin l’opportunità di fare marcia indietro senza sentirsi umiliato. Mentre Shoigu inizia il ritiro, – vero o presunto che sia importa poco, conta solo il messaggio – la portavoce del ministero degli esteri Maria Zacharova dichiara trionfante alla stampa: “Il 15 febbraio 2022 passerà alla storia come il giorno del fallimento della propaganda occidentale, umiliata e distrutta senza sparare un colpo”. Tradotto: come avevamo detto, nessuna invasione in vista; come sempre, l’Occidente grida al lupo senza nessun motivo. Comincia in questo momento una nuova battaglia, quella della narrazione ex post. Mentre i pundits pro-russi amplificano il messaggio ufficiale del Cremlino, gli Stati Uniti potranno legittimamente contrapporre la loro versione dei fatti: abbiamo scoperto le carte di Mosca, costringendo i russi al ritiro senza sparare un colpo.

Troppo presto per cantare vittoria, troppo incerta ancora la situazione al confine, troppa nebbia da dissipare sulle trattative segrete che in questo momento si stanno sicuramente svolgendo al margine delle dichiarazioni ufficiali. Ma, come avevamo provato a spiegare nel primo articolo di questa serie, una guerra troppo annunciata difficilmente scoppia e men che meno se in fondo non conviene a nessuno, come in questo caso. Se invasione non sarà non significherà comunque che il pericolo di un conflitto sarà scongiurato: a meno di un accordo definitivo sullo status dell’Ucraina (prospettiva che resta assai improbabile), la Russia – Putin o non Putin – difficilmente rinuncerà alle sue ambizioni su quello che considera da sempre un semplice territorio disponibile.

In un’intervista a Libero, il direttore di Limes Lucio Caracciolo, ha dichiarato che Mosca ha già ottenuto il risultato a cui aspirava, cioè tenere lontana l’Ucraina, almeno per il momento, dalla Nato: se la Russia non attaccherà, sarà perché ha già vinto. Ma è proprio sul concetto di vittoria che conviene intendersi: se consideriamo che l’imponente spiegamento di forze militari sia finalizzato ad ottenere l’obiettivo minimo di raffreddare le velleità atlantiste di Kiev, allora probabilmente Putin potrà portare a casa questo risultato; se però spostiamo l’attenzione sul medio e lungo termine, è difficile pensare che – allo stato attuale – la sfida lanciata dalla Russia serva effettivamente a recuperare il controllo geopolitico dell’Ucraina, per non parlare della ricostituzione di una sfera di influenza sul suo estero vicino. In assenza di impegni formali da parte della Nato e degli Stati Uniti, leggasi un tradimento in piena regola delle aspirazioni ucraine, il messaggio trionfalistico che Putin venderà ai suoi rischia di trasformarsi ben presto in una vittoria di Pirro: “vogliamo risolvere questa questione adesso”, ha significativamente dichiarato ieri durante la conferenza stampa congiunta con il cancelliere tedesco Scholz. Non sembra insomma bastargli la rassicurazione che l’espansione della Nato non è in agenda in questo momento, pretende la conferma formale che non avverrà in nessun caso.

E torniamo qui alla carta del Donbass, che la Duma addomesticata cala nel momento algido della crisi. Riconoscimento formale o no, le “repubbliche ribelli” sono la chiave della destabilizzazione del Paese perseguita da Mosca e la garanzia concreta della sua non integrazione nelle istituzioni occidentali (Ue e Nato). Non va dimenticato che i secessionisti rivendicano la sovranità sull’intera regione di Luganks e Donetsk, quindi anche su territori attualmente controllati dal governo centrale. Mantenere aperto il conflitto ad est, aprire la porta alla denuncia degli accordi di Minsk, costringere Zelenskij a una reazione che potrebbe preludere, stavolta sì, a un intervento militare, rientrano nel ventaglio di opzioni più facilmente realizzabili senza costi eccessivi in termini di isolamento internazionale: dal punto di vista occidentale, lottare per Kiev non è la stessa cosa che farlo per Lugansk. Putin ne è cosciente e per questo ha spostato nelle ultime ore l’attenzione generale sul Donbass (dove a suo dire “è in corso un genocidio”), che nelle prossime settimane sarà al centro delle manovre diplomatiche.

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