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Questione scozzese ultima trincea degli euroinomani: ma l’indipendentismo non era il male assoluto?

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L’addio di Edimburgo a Londra sembra essere diventato il nuovo castigo per vendicare l’affronto Brexit in cui spera chi non vede altro che un unico super-stato: l’Unione europea

Prima c’era il backstop, poi è arrivato il Vallo d’Adriano. Dalla questione del confine tra la Repubblica d’Irlanda e l’Irlanda del Nord, che solo poche settimane fa sembrava irrisolvibile, l’attenzione degli europeisti all’indomani delle elezioni generali britanniche si è spostata sul confine che separa la Scozia dal resto del Regno, alla luce dell’avanzata dei consensi dello Scottish National Party della combattiva Nicola Sturgeon, la First Minister di Edimburgo, quasi ad esorcizzare il successo di Boris Johnson che segna la fine dei sogni di uno stop alla Brexit. Senza attendere un’analisi più approfondita dei flussi di voto e trarne considerazioni più concrete, come invece consente un approccio meno dogmatico all’interna vicenda, la Sturgeon è divenuta l’ultimo baluardo di chi non si rassegna davanti all’evidenza: che l’elettorato d’Oltremanica vuole che sia portata a compimento la separazione da Bruxelles.

La questione dell’indipendentismo scozzese è tornata prepotentemente alla ribalta ed ora è cavalcata come se rappresentasse la giusta punizione per Brexit: volete andarvene dal club europeo? Dovete pagare pegno perdendo un pezzo del vostro Regno Unito. Se prima era il Nord Irlanda, adesso è la Scozia, così decisamente schierata contro l’uscita dall’Unione europea. Certo non possono passare inosservati i voti raccolti dal partito della Sturgeon che infatti non ha perso tempo, richiedendo per l’ennesima volta che si tenga un secondo referendum dopo quello del 2014, quando i contrari alla secessione si imposero con il 55 per cento. Ma perché accada è necessario il consenso di Westminster e i Conservatori non sono per nulla intenzionati a dare il via libera. La battaglia politica non si esaurirà in poche settimane o mesi e qualcuno addirittura ha già azzardato una escalation simile a ciò che è avvenuto in Catalogna dopo la consultazione di due anni fa che ha scosso la Spagna.

Come reagirono i vertici europei e alcuni commentatori italiani allora, al palesarsi di rivendicazioni identitarie sul territorio europeo? Chiudendo le porte a qualsiasi velleità secessionista, fedeli alla linea di un’unione senza confini e all’interno della quale probabilmente non hanno nemmeno troppo senso i singoli stati che la compongono in nome di un’integrazione sempre più spinta. “Come presidente della Commissione condivido la posizione del governo di Madrid perché sono a favore di chi rispetta la legge”, dichiarò Jean Claude Juncker. “Rajoy ha un approccio molto legalitario, non c’è dubbio. Ed è una colpa secondo lei?”, domandava al giornalista che lo intervistava. D’altronde, “dichiarare l’indipendenza sulla base di un referendum difettoso è totalmente irresponsabile”, affermava nel contempo il liberale belga Guy Verhofstadt, perché “provocherebbe una frattura fatale che potrebbe essere insanabile”. Preoccupazioni, timori e prospettive decisamente pessimiste, come ricordava Romano Prodi nel suo editoriale su Il Messaggero del 24 dicembre 2017: “Il caso della Catalogna dimostra che questi processi hanno un costo elevatissimo”, con aziende in fuga e investimenti internazionali crollati.

Mario Monti, dalle colonne del Corriere, invitava a non tirare l’Ue per il bavero, dal momento che i trattati non le concedono poteri di mediazione – cosa che invece potrebbe accadere, suggeriva, su richiesta dei Paesi coinvolti. In compenso, ospite di Piazza Pulita proprio mentre venivano resi pubblici gli exit poll della General Election della scorsa settimana, lo stesso Monti si domandava con tono beffardo “chissà se ci sarà un po’ di disintregazione del Regno Unito” mentre l’Europa rimarrà unita e salda.

Per Beppe Severgnini, il più anglofilo dei giornalisti italiani – la sua Inghilterra però sembra coincidere solo con i contorni di Londra – il processo è addirittura irreversibile: “All’orizzonte, appare lo spettro della Catalogna. Certo: Edimburgo e Glasgow sono diverse da Barcellona, ma le passioni sono simili. E gli scozzesi dispongono di un argomento formidabile, che i catalani non avevano: l’Inghilterra ha voluto lasciare l’Unione europea”. Ma cosa scriveva a tal proposito da direttore del settimanale Sette? Che una secessione sarebbe del tutto inutile, fuori luogo, insensata. “Esiste un comun denominatore continentale, nazionale, regionale, provinciale, locale, perfino rionale – commentava -. Io sono nato nel centro di Crema, sono lombardo, sono italiano, sono europeo. Siamo fatti come il tronco di un albero: cerchi concentrici. Se sono comunicanti, l’albero è in salute”. Quindi l’ammonimento: “È un sogno o un incubo diventare un piccolo Stato marginale escluso, almeno temporaneamente, dalla Unione europea che oggi ci riunisce e ci protegge? Gli scozzesi – orgogliosi e ammirevoli quanto i catalani – si sono posti questa domanda. E hanno risposto: forse no”.

Poi però devono aver cambiato idea altrimenti non si spiegherebbe com’è che, tutto ad un tratto, al di là del Vallo “appare lo spettro della Catalogna”. O forse è solo perché ha vinto quel “buffone” di Boris Johnson.

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