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Ridefinire il concetto di genocidio per non restare intrappolati nei nominalismi anche in Ucraina

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Ritorna la spinosa questione del genocidio, ogni volta che la guerra si abbatte sui civili disarmati, vittime sacrificali della volontà di potenza del tiranno di turno. Il piano di Putin per l’Ucraina sottomessa prevede un lungo periodo di “rieducazione” della popolazione contaminata da un “nazismo” immaginario, concetto ormai incistato nella retorica e nell’ideologia del Cremlino, utilizzato con crescente insistenza come pretesto per la brutalità dispiegata sul terreno. L’ultimo editoriale di RIA Novosti, quello sulla de-ucrainizzazione, è un incitamento alla pulizia etnico-culturale. Di genocidio non si può (ancora) parlare ma di linguaggio genocidario sì, a partire dai discorsi pre-invasione sulla non esistenza dell’Ucraina come nazione, fino agli articoli della stampa governativa che preparano i russi all’annichilimento sistematico del Paese invaso.

Come la penso io sul termine e sulle trappole del suo uso troppo disinvolto o troppo restrittivo, l’ho spiegato tempo fa in questo articolo sulla necessità di riportare Auschwitz dentro la storia. Nata da un compromesso politico tra i vincitori della Seconda Guerra Mondiale, la definizione di genocidio rivela tutti i suoi limiti nel momento in cui esclude i gruppi politici, sociali ed economici. I sovietici avevano giusto qualche cadavere nell’armadio per poter accettare l’estensione a categorie che non fossero strettamente nazionali, etniche, razziali o religiose. Si scelse così di mettere l’accento sulla categoria delle vittime più che sulle responsabilità degli esecutori, aprendo il cammino a costanti reinterpretazioni di una nozione che è diventata a sua volta terreno di scontro ideologico. È evidente che l’Olocausto, la strage di cambogiani sotto Pol Pot e l’Holodomor ucraino degli anni ‘30 del secolo scorso non rientrano nella stessa categoria di Guernica o di Bucha, ma non è certo un giudizio di valore quello che invocano le vittime (e i superstiti) dei massacri che ciclicamente tornano a ricordarci quanto sia sottile il confine fra la difesa della vita umana e l’infamia della morte inflitta arbitrariamente.

Urge, a modesto avviso di chi scrive, una ridefinizione del concetto, se non un suo superamento. Occorre uscire dalla gabbia giuridica di un nominalismo truccato e connotare le stragi di civili, indipendentemente dalle loro caratteristiche identitarie, come stermini di massa o, come suggerisce Anne Applebaum, “assassinî di massa compiuti per ragioni politiche”, determinandone la gravità secondo l’entità e le circostanze della loro esecuzione. Insomma, democratizzare il termine, conferendogli un valore davvero universale e a-ideologico, mettendo le vittime al centro non in quanto appartenenti a un gruppo più o meno meritevole di protezione ma come moltitudine di individui stritolati dalla macchina totalitaria in azione.

Finché non ripenseremo l’approccio ai crimini di massa dovremo convivere con l’eterna polemica delle definizioni. E allora, è in corso un genocidio in Ucraina o no? Ancor prima dell’invasione il termine è stato riportato in auge dalla propaganda russa in riferimento al conflitto del Donbass, poi da Zelensky dopo i fatti di Bucha. A prima vista entrambe sono strumentalizzazioni, anche se non possono essere equiparate. Il conflitto nell’Est dell’Ucraina è il risultato del progetto destabilizzatore del Cremlino che nel 2014 reagì con una guerra per procura all’Euromaidan di Kiev: le 14 mila vittime dello scontro – tra militari e civili – non sono certo imputabili alla volontà premeditata degli ucraini. Non così l’urbicidio di Mariupol o la strage di Bucha, conseguenze dirette del progetto bellico di Mosca. Diversi articoli negli ultimi giorni hanno provato a rispondere all’oziosa (ma a quanto pare ineliminabile) questione nominalistica. Analizziamone brevemente uno.

Jonathan Leader Maynard vede nelle azioni dell’esercito russo crimini di guerra e “probabilmente” anche crimini contro l’umanità (secondo la definizione dello Statuto di Roma della Corte penale internazionale, 1998) ma non atti di genocidio come descritti nella (deficitaria, già detto) Convenzione del 1948. L’autore, esperto in crimini di massa, riconosce che l’etichetta non dovrebbe “importare più di tanto”, anche perché dal 2005 (World Summit Onu) la “responsabilità di proteggere” i civili deve essere esercitata indipendentemente dalla forma che assumano le atrocità commesse. Un passo avanti, certo, ma non sufficiente a evitare che il G-word sia invocato con frequenza da chi si considera vittima di abusi e crimini, pur non sussistendone tecnicamente le premesse giuridiche.

Per analizzare il caso ucraino Maynard si sofferma correttamente su due aspetti essenziali: le intenzioni specifiche dei perpetratori degli abusi e il tipo di violenza commessa. Il primo aspetto porta alla “retorica genocida” dell’élite politica russa, difficilmente negabile. L’accostamento di “denazificazione” e “de-ucrainizzazione” rappresenta secondo lo studioso “la classica ideologia genocida”, in linea con i precedenti dell’Olocausto, del Ruanda o dello sterminio degli armeni, ma “di per sé” non dimostra l’esistenza di un piano politico-militare che leghi indissolubilmente le azioni delle truppe russe alla propaganda estremista del governo. Il secondo aspetto, l’entità delle violenze commesse, non può ancora essere stabilito obiettivamente: le atrocità che stanno emergendo dipingono un quadro di abusi e delitti sistematici ma la dimensione reale dei crimini di guerra e la catena di comando che ha portato alla loro realizzazione restano al momento indeterminate.

Se di genocidio non si può (ad oggi) parlare, tuttavia – specifica Maynard – siamo di fronte in ogni caso ad “atrocità di massa” che chiamano in causa la “responsabilità di proteggere” della comunità internazionale. A conferma del fatto che l’ossessione definitoria si rivela spesso un ostacolo all’azione, o un pretesto per non agire: “In quasi tutti i casi di atrocità di massa – conclude – l’unico strumento veramente efficace per prevenire o fermare la violenza è sconfiggere gli autori e/o costringerli a ritirarsi dal territorio delle loro vittime”. Le questioni aperte in definitiva riguardano la diffusione e la sistematicità dei crimini russi, a che livello della scala di potere risieda la responsabilità della loro perpetrazione e se le vittime siano state prese di mira come individui (crimini di guerra e crimini contro l’umanità, a seconda del grado di intensità e premeditazione) o come membri di un gruppo nazionale da eliminare in quanto appartenenti a tale gruppo (genocidio).

Se dal punto di vista giuridico il cammino verso una possibile incriminazione dei colpevoli sarà lungo, tortuoso e forse destinato a un nulla di fatto, da quello politico e morale invece la sentenza è stata emessa la notte dello scorso 24 febbraio. E difficilmente potrà essere ribaltata in appello.

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