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Santa Sofia una moschea? L’ennesima conferma: la Turchia di Erdogan non è Europa

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“Santa Sofia non sarà più un museo. Il suo status cambierà. La chiameremo moschea”. Queste le dichiarazioni rilasciate dal presidente turco Recep Tayyip Erdogan giovedì scorso. In Turchia si svolgeranno domenica le elezioni amministrative ed il reis non poteva esimersi dalla consueta “uscita” propagandistica, utile a recuperare o mantenere i voti dell’islam più estremista e dei nostalgici dell’impero ottomano. Questa ennesima provocazione di Erdogan conferma, se ancora ce ne fosse stato bisogno, la distanza non solo politica ma soprattutto culturale tra Turchia e Occidente.

Affermando che “è venuto il tempo di prendere una misura” sulla denominazione, Erdogan ha fatto intendere che l’idea sarà esaminata dopo il voto. Un cambiamento che oltre a provocare le giuste proteste dei cristiani, aumenterà le tensioni con la Grecia, che spesso ha espresso la sua preoccupazione per lo status di questo patrimonio mondiale dell’Unesco. Basilica cristiana per quasi un millennio, Santa Sofia, uno dei monumenti simbolo di Istanbul, diventa moschea dopo la conquista ottomana di Costantinopoli del 1453. Con l’avvento della repubblica, Ataturk la trasforma in un museo per porre fine a secoli di contese e tensioni tra fedi. Lo status attuale permette la visita di milioni di turisti ogni anno ed autorizza credenti di tutte le religioni a meditare al suo interno. Anche se, da tempo, grazie al beneplacito delle istituzioni, si sono moltiplicate le iniziative legate all’islam, con sedute di lettura pubblica del Corano e di preghiera collettiva. Erdogan rischia così di distruggere ottant’anni di convivenza, mentre la laicità di Ataturk ormai è solo un lontano ricordo.

Quel tipo di dichiarazioni sono ormai ricorrenti e denotano anche una certa preoccupazione da parte del leader turco, forse provocata dalla crescente contestazione cui è sottoposto il suo partito (AKP) a causa delle difficoltà economiche a cui deve far fronte la Turchia. Erdogan pare però a suo agio nel far leva sul fondamentalismo religioso e sull’antisemitismo, e nel fomentare sentimenti palesemente anti occidentali e anti cristiani. Solo questo basterebbe per confermare la differenza tra l’Europa e l’Anatolia; se ci aggiungiamo le manovre in Siria, l’atteggiamento repressivo nei confronti dei curdi, gli ammiccamenti all’Isis e tutto quello che è seguito al fallimentare (e fantomatico) golpe del 2016, nessun rappresentante dell’Ue o governante europeo dovrebbe solo immaginare di continuare il processo di adesione della Turchia all’Unione. Senza dimenticare la recente questione dell’acquisto, da parte di Ankara, dei sistemi anti-missile russi. Caso che ha fatto giustamente innervosire Washington, dal momento che la Turchia rimane un importante membro Nato.

La questione del cambio di status di Santa Sofia è quindi solo la punta dell’iceberg di un atteggiamento, un’impostazione politica e culturale che Erdogan sta portando avanti da anni e che non può non farci dire che la Turchia non è Europa e che, stando così le cose, non lo potrà mai essere. D’altra parte Jan Sobieski l’aveva già capito più di trecento anni fa, e noi non smetteremo mai di ringraziarlo.

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