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Se Londra piange, Parigi non ride: i guai di May e Macron, che si piegano per non spezzarsi

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La giornata di ieri ha visto i due leader di Londra e Parigi, così  diversi tra loro, per carattere, cultura e interessi, accomunati dalla stessa sorte politica, entrambi alle prese con il momento forse più critico della loro esperienza di governo. La politica ci regala spesso simili coincidenze.

Panico a Downing Street. Alla vigilia del voto decisivo della House of Commons sull’accordo con Bruxelles per l’uscita del Regno Unito dall’Ue, la premier britannica Theresa May si è improvvisamente accorta di essere a corto di voti e ha deciso di compiere un ultimo disperato tentativo. Rinviando il voto, però, ha implicitamente ammesso, 1) che l’accordo ad oggi verrebbe sepolto ai Comuni non per una manciata di voti, ma da una valanga di no, a stragrande maggioranza; e 2) che sono fondati i timori espressi dai suoi critici sul cosiddetto backstop sul confine nordirlandese.

Insomma, improvvisamente quello che fino a due giorni fa la May aveva presentato spavaldamente come il “migliore degli accordi possibili”, non lo è più, a causa proprio di quella clausola backstop dal termine indefinito su cui, sempre fino a pochi giorni fa, aveva sorvolato, eludendo o respingendo le critiche. Dunque, perché non affrontare il nodo prima di chiudere il deal, invece di continuare a negare il problema?

La premier May potrebbe avere qualche buona carta da giocare, forse qualcuno a Bruxelles gli ha fatto capire che per salvarla dalle forche caudine dei Comuni c’è la disponibilità a venirle incontro per mettere una pezza al problema backstop. Ma se così non fosse, se dovesse tornare a Londra a mani vuote, senza modifiche concrete, o solo con deboli “rassicurazioni”, si ritroverebbe ancora più debole di quanto lo fosse prima di partire e di rinviare il voto.

Come farebbe infatti a sottoporre ai Comuni un testo che con la mossa di ieri lei stessa ha implicitamente riconosciuto essere “non sufficiente” proprio sul nodo dirimente, e principale argomento dei critici dell’accordo, il backstop appunto?

Panico anche all’Eliseo. Sotto l’assedio dei gilet gialli, il presidente francese Emmanuel Macron ha alla fine ceduto e riconosciuto le ragioni della protesta, annunciando un cambio di rotta: en Retromarche. Condanna totale, ovviamente, delle violenze (“saremo intransigenti con i violenti”), ma piena retromarcia politica. Il presidente si è assunto “parte della responsabilità” per la collera (“giusta”) dei suoi concittadini (“mi rendo conto di aver offeso alcuni francesi con le mie dichiarazioni”), arrivando quasi a promettere prima i francesi (dove l’abbiamo già sentita?), anzi quasi un solo i francesi.

“La mia unica preoccupazione siete voi. La mia unica preoccupazione è la Francia. La mia unica battaglia è per voi. La nostra unica battaglia è per la Francia”.

In realtà, Macron ha saputo dosare fin dalla campagna elettorale retorica sovranista, una spolverata di populismo, e retorica europeista, e anche grazie a ciò ha potuto avere la meglio su Marine Le Pen. Ai nostri occhi, qui su Atlantico, è da sempre una sorta di nazionalista “competente”, per il quale l’europeismo (come per tutti i passati leader francesi), non è che la maschera che si indossa nei salotti buoni e all’estero per meglio servire l’interesse nazionale. E d’altra parte, l’ipocrisia di Macron su temi quali i migranti (confini sigillati e lezioni all’Italia), il commercio (liberale con le aziende degli altri stati, protezionista con le francesi), o l’esercito europeo (fuori gli inglesi, ora si può, a guida francese), è sotto gli occhi di tutti.

Ma il presidente che solo un anno e mezzo fa aveva festeggiato la sua elezione all’Eliseo con l’Inno alla gioia, inno ufficiale Ue, mandando in brodo di giuggiole i “piùeuropeisti” e i sinceri democratici e “competenti” de’ noantri, nella sua ora più buia ha messo da parte anche il suo europeismo di facciata. Di più: nel suo discorso, estremo tentativo di riconciliarsi con i francesi, non ha trovato alcuno spazio per l’Unione europea, né per la sua ambiziosa agenda di riforme per essa. Troppo grave l’ora per gli esercizi di retorica.

E allora, decreta uno “stato d’emergenza economico-sociale”, “servono misure profonde”: aumento del salario minimo, straordinari e bonus aziendali detassati, stop al prelievo sulle pensioni sotto i 2 mila euro al mese. Misure che almeno nell’immediato vogliono dire più deficit. Non per le riforme, ma per comprare consenso politico. E chi lo dice ora al commissario Moscovici (francese e macroniano), che negli stessi minuti in cui il suo presidente parlava e prometteva, menava fendenti all’Italia davanti alla Commissione affari economici e monetari del Parlamento europeo?

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