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La stagione del Quantitative Easing volge al termine, ma i governi europei non sanno che mettersi

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Il bazooka di Draghi va in pensione, ma i governi europei non sono pronti

Quando il tempo sta per scadere, si dice, si cerca di godersi al massimo gli ultimi giorni, minuti, secondi che ci restano. Si contano gli errori commessi, gli obiettivi raggiunti e le promesse tradite. In Europa, dal 2012 funziona così, dal famoso “whatever it takes” pronunciato da Mario Draghi il 26 luglio dello stesso anno, crediamoci, il mondo è cambiato, molto. Anche se alcuni ancora non se sono accorti. Mario Draghi ha il vanto di essere stato l’unico economista e banchiere centrale a essere considerabile colomba e falco allo stesso tempo.

Per fronteggiare la più grave crisi che il continente europeo avesse mai subito si è scelta la strada dell’alleggerimento quantitativo, o, “quantitative easing”: un complesso e strutturato su più anni meccanismo di intervento di politica monetaria promosso e attuato dalla Banca Centrale Europea volto, come da mandato dell’istituto, a riportare il livello d’inflazione nella zona euro in zona prossima, ma al di sotto del 2 per cento. Dal 2015, anno di entrata in vigore del QE ad oggi, l’euro si è svalutato di circa il 20 per cento contro il dollaro e l’inflazione è risalita da un livello di deflazione del -0.6 per cento nel gennaio 2015 al 2 a novembre 2018.

È bastato il più grande provvedimento di espansione monetaria mai attuato da quando esiste la moneta unica per riuscire a portare fuori dalla crisi i Paesi europei? È bastato il QE per portare occupazione, stabilità del tasso di cambio, sostegno dei salari, e ricchezza diffusa? Chiaramente no. Perché non è questo il mandato della BCE. La BCE ha come obiettivo chiaro e definito la stabilità dei prezzi. Nulla di più. “Il mantenimento della stabilità dei prezzi è l’obiettivo primario dell’Eurosistema e dell’unica politica monetaria di cui è responsabile”. Dal Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, articolo 127. L’obiettivo di mantenere il tasso d’inflazione a quel livello è puramente indicativo, ma è la stabilità la chiave, non il 2 per cento in sé, la stabilità dei prezzi è importante perché le persone e soprattutto le imprese possono riconoscere le variazioni dei prezzi relativi (cioè i prezzi tra merci diverse), senza essere confuse dalle variazioni del livello generale dei prezzi. Ciò consente loro di prendere decisioni ben informate in materia di consumi e investimenti e di ripartire le risorse in modo più efficiente. Perché riducono i premi per il rischio d’inflazione nei tassi d’interesse (ossia i creditori di bond che chiedono rendimenti maggiori per la detenzione di attività nominali). Ciò riduce i tassi d’interesse reali e aumenta gli incentivi agli investimenti. Perché evita inutili e costose attività sul mercato finanziario alle imprese per proteggersi dagli effetti negativi dell’inflazione o della deflazione. Perché riduce le distorsioni dell’inflazione o della deflazione, che possono aggravare l’impatto negativo sul comportamento economico dei sistemi fiscali e di sicurezza sociale, alleggerendo così il peso delle riforme fiscali in capo ai governi. E infine, perché permette all’economia del mercato unico di avere sempre un potere d’acquisto costante nella commercializzazione di beni all’esterno dell’euro evitando di rischiare di dover importare a maggiori costi o di dover svalutare per esportare.

Tutti gli altri obiettivi di piena occupazione e crescita bilanciata dell’economia all’interno dell’Unione sono obiettivi secondari per la BCE, perché da assumere in condivisione con i governi dei singoli Stati membri i quali sono responsabili delle politiche fiscali dei rispettivi Paesi. Ora, secondo la teoria economica, un’espansione monetaria porta a una situazione di eccesso di offerta di moneta, gli individui razionalmente utilizzano l’avanzo di moneta per acquistare titoli, facendone aumentare i prezzi e diminuire i rendimenti. L’espansione però può avvenire anche in altri modi, e nello specifico la BCE ha utilizzato l’abbassamento dei tassi d’interesse sui rifinanziamenti principali, su quelli marginali per rendere il costo del denaro per le banche inferiore, e i tassi sui depositi che la BCE paga alle banche sulla liquidità e che queste a fine serata parcheggiano nel conto che devono avere presso la BCE. Dal 2015 il tasso sui depositi è negativo (a marzo 2016 la BCE lo ha addirittura tagliato a -0.4 per cento). A queste condizioni il principio è l’inverso: sono le banche a dover pagare un tasso di interesse alla BCE sulla liquidità presso l’istituto di Francoforte (in eccesso rispetto all’1 per cento dei depositi che corrisponde alla quantità di riserva obbligatoria). Così facendo la BCE disincentiva le banche a parcheggiare la liquidità, per spingerle a prestarla a famiglie e imprese.

Le precedenti operazioni, come intuibile, si sono inserite all’interno di un quadro molto più ampio del mero atto a perseguire gli obiettivi d’inflazione. Come se non bastasse nel 2014 viene annunciato il primo TLTRO, un’operazione di rifinanziamento a lungo termine con la quale la BCE metteva sostanzialmente a disposizione delle banche dei fondi a tasso d’interesse agevolato con l’obiettivo di permettere alle stesse di prestare soldi nell’economia reale. L’operazione viene rinforzata con un secondo programma nel 2016. Oltre a questo viene varato il programma APP, con il quale la BCE entra nel mercato secondario come compratore di bond sovrani, corporate, e garantiti con l’obiettivo di alzare i prezzi, abbassare i tassi e dare fiato ai bilanci delle banche dell’Eurozona che devono osservare i requisiti di capitale minimi dettati dagli accordi di Basilea. Questo gli dà più opportunità di reperire capitali sul mercato e rincominciare il circolo.

Ora, secondo quanto detto, la BCE ha fatto forse anche più del “whatever it takes” da cui siamo partiti: oltre ad aver ampiamente raggiunto l’obiettivo d’inflazione, ha anche partecipato attivamente nella promozione della ripresa del credito. Ma allora perché esiste la paura verso questi tecnocrati che governano queste istituzioni?

Perché quando vediamo in televisione Mario Draghi prima di pensare che ha salvato l’euro pensiamo: “Poteva fare tantissimo ma ha preferito aiutare la Germania e Bruxelles”?. La vera colpa di tutto questo risiede nella grande occasione fornita dalla BCE ai governi per fare quelle riforme strutturali del mercato del lavoro, del taglio delle imposte, degli investimenti in capitale umano, dell’apertura agli accordi di libero scambio con i Paesi fuori dall’Europa. Occasione persa, dai governi e da noi, che abbiamo preferito accettare in Spagna un aumento dei salari minimi del 22 per cento, in Francia un aumento generale di 100 euro al mese dal 2019, in Italia un reddito di cittadinanza per chi non lavora. Abbiamo preferito, perché ci ha fatto comodo, pensare che il processo di inserire i soldi nelle tasche dei cittadini senza passare da un abbattimento del tasso di disoccupazione, da un aumento degli investimenti delle imprese e da un conseguente incremento della produttività fosse un fatto economicamente sostenibile. Ma non lo sarà, e ci costerà caro.

A noi cittadini europei costerà caro in termini di quel virus silenzioso di cui abbiamo parlato in precedenza: sì, l’inflazione. Il microbo che per quasi un secolo i migliori economisti del mondo hanno combattuto, cercato di controllare, fino a pensare di creare una moneta unica, in un mercato unico, che potesse liberare i suoi utilizzatori dall’inflazione. Ma no, a noi in fondo, soprattutto a noi italiani piace proprio l’inflazione, peccato che non piaccia ai nostri cugini tedeschi, a tal punto dal costruire una banca centrale che fosse inflation targeting con obiettivi di stabilità dei prezzi e di benessere economico e basso debito pubblico ampiamente raggiunti. La stessa Germania sfrutterà la congiunzione astrale dell’aumento dei salari nelle altre maggiori economie d’Europa citate prima per vedere come il futuro comitato direttivo della BCE, per vincolo di mandato, deciderà di invertire la leva dei tassi per controllare e abbassare il livello d’inflazione, il quale per effetto delle politiche dei governi salirà e questo ci costerà. Molto caro.

Il disequilibrio provocato dall’incremento dei salari indurrà le imprese ad aumentare i prezzi ma questi creeranno ancora più povertà. Tutto ciò in uno scenario come quello attuale europeo può essere pericoloso perché potrebbe provocare pressioni sul mercato obbligazionario con conseguenze sui bilanci delle banche e conseguenti maggiori interessi per finanziamenti sul mercato aperto, portando le stesse banche commerciali a dover scaricare i costi di approvvigionamento sui mutui a tasso fisso erogati a imprese e famiglie. L’anno 2019 sarà di assestamento per la BCE, che già dal 2020 potrebbe iniziare questo nuovo percorso di stretta monetaria. Soldi finiti? Al contrario, ma ora la clessidra è terminata, e adesso inizia tutto un altro giro.

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