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Trasparenza vs privacy: la stretta via del buonsenso invece di una normativa ipertrofica e contraddittoria

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Napoleone diceva, intorno al 1820, che “non è facile ottenere semplicità dai burocrati; le formalità del Consiglio di Stato hanno impedito parecchie semplificazioni”. Si sa, l’imperatore francese amava particolarmente la semplificazione in ogni campo, da quello di battaglia al sistema legislativo. Ma già in quei tempi la complessa macchina di Stato e l’inevitabile burocrazia avevano le loro prerogative insopprimibili e ingovernabili, anticipando ciò che oggi chiamiamo il “Deep State”. Faccio questa premessa perché mi preme ricordare che qualsivoglia regolamentazione, allora come oggi, deve passare il vaglio della sua effettiva applicabilità nel Paese ove avrà vigore e, in molti casi, proprio i problemi di applicabilità nel concreto ne possono fare una buona legge o, al contrario, una delle tante disposizioni che rimarranno lettera morta.

Nell’ultimo quarantennio, anche in Italia è soffiato forte il vento del desiderio di trasparenza della cosa pubblica e dei pubblici atti che s’impongono ai cittadini. Tramontata, almeno in una prima fase, l’epoca dei latinorum con il quale si diceva al povero cittadino “tu firma qui e basta, anche se non capisci cosa stai firmando”, abbiamo assistito ad una trasformazione rapida dell’approccio del burocrate con il suo, se possiamo definirlo così, controllato. Dopo la caduta del Muro e la crescente richiesta di quella “glasnost” che tanti cuori e tante formazioni politiche e sociali invocavano a gran voce alla fine del secolo scorso, a tanti è apparsa improvvisamente la via maestra da seguire, come la croce di Costantino: la rete informatica mondiale, il web. Come d’incanto, nel mondo intero si è scoperto che lo strumento universale per controllare i nostri controllori era, appunto, internet. Tutto si trova e tutto si conosce tramite internet, per cui, man mano che la rete assumeva rapidamente dimensioni globali, sempre più informazioni vi si trovavano, anche e soprattutto sulle organizzazioni strutture statali. Già nei primi anni 2000 erano liberamente consultabili bilanci di enti pubblici, stipendi dei parlamentari, nominativi dei componenti le strutture direttive di ogni ufficio pubblico. Bene, si dirà… obiettivo raggiunto, almeno in parte. Ma occorre, a questo punto, avanzare le prime critiche ad un sistema di crescente libero accesso ai dati che, almeno potenzialmente, possono arrecare danno alla riservatezza dei loro titolari (o meglio, “interessati” per usare la terminologia della vigente normativa europea).

Se, fino al primo decennio di questo secolo, il diritto alla privacy (e già qui sarebbe opportuno domandarsi perché usiamo quasi esclusivamente il termine anglosassone) non era certamente sentito dalla popolazione come bene personale prioritario, anno dopo anno e fino ad oggi possiamo dire che tutti sembrano assai interessati a tutelare la propria riservatezza, almeno in linea teorica. Oggi il termine “privacy” è ormai facente parte del parlare comune; tutti la citano, tutti la rivendicano e tutti ne prendono il rispetto da parte altrui, talvolta anche ben oltre la ragione, come quando alcuni pretendono di non fornire le proprie generalità ad un pubblico ufficiale. Non vorrei fare del facile sarcasmo con ragionamenti semplicistici del tipo “volete la privacy? Ebbene, noi ve la diamo, ma poi saranno cavoli vostri…” che un cinico ed opportunista Legislatore (che si spera non esista) potrebbe aver pensato, ma non v’è dubbio alcuno che trasformare i desiderata della gente in normativa comporta sempre qualche stortura e qualche rischio.

Intanto, come sappiamo, le normative europee (come la General Data Protection Regulation in vigore anche in Italia dal 2018) finiscono per essere una summa non sempre organica dei lavori preparatori nei singoli Stati Ue, ma non solo: questa benedetta Unione europea deve legiferare tenendo conto di abitudini, mentalità secolari, inclinazioni particolari di popoli assai disomogenei tra loro e, soprattutto quando si vogliano far cambiare abitudini consolidate per fare posto a modelli di comportamento anche essi invasivi, ci vuole tempo e sono necessari parecchi aggiustamenti. Ma le sanzioni, in caso di violazione della privacy altrui, ci sono da subito e persino milionarie (avete letto bene). Inoltre, a voler essere cattivi, il latinorum si è soltanto modernizzato. Chiunque debba oggi compilare la documentazione obbligatoria per il trattamento dei dati personali, troverà una bella serie di termini (data protection officer, data breach, accountability ecc.) di cui non è semplice capire il significato e la stessa normativa italiana non aiuta di certo a non sbagliare e non rispondere a casaccio a certi quesiti, in quanto impiega disinvoltamente quei termini inglesi. Ecco uno degli effetti collaterali di cui parlavo poc’anzi. Sempre più attenti alla privacy, benissimo. Ma anche sempre più fruitori dei servizi web che della privacy sono la negazione in nuce, proprio perché la filosofia del web è “ciò che chiunque scrive qui è liberamente disponibile al mondo intero”. E, di conseguenza, arriviamo al paradosso, che ho potuto constatare personalmente spesso, di persone che, pur interessatissime alla tutela della privacy, s’iscrivono volontariamente e per gioco su una piattaforma russa (FaceTime) alla quale forniscono gratuitamente il proprio miglior dato biometrico, ossia la fotografia ravvicinata della faccia, pur potendo constatare, sul sito stesso, che la raccolta di tali dati biometrici su scala mondiale non è effettuata con particolari cautele e non sapendo, soprattutto, se e come tali dati riservati personalissimi verranno comunicati a terzi. Di questa cosa, peraltro, se ne sta occupando il nostro Garante della Privacy, per cui siamo in attesa di una sua pronuncia specifica.

Un ultimo spunto di riflessione: è di questi giorni la notizia che il sito dell’Enea, certamente per desiderio di trasparenza amministrativa, ha tenuto online fino a pochi giorni orsono la lista completa dei cittadini che hanno fatto domanda per il c.d. ecobonus, ossia la detrazione fiscale per impianti energetici a basso impatto ambientale. Di tali utenti erano chiaramente visibili dati personali ed indirizzi, e non mi pare che necessiti dire altro.

Sorge spontanea, a tal punto, la domanda: quale diritto si deve considerare prevalente tra quello alla trasparenza amministrativa e quello alla privacy? Obbligheremo persino a rimuovere le pubblicazioni di matrimonio (imposte dal codice civile) che devono essere bene in vista nei Comuni e nelle Chiese? Non sono forse dati più che riservati e potenzialmente lesivi della privacy dei nubendi?

La risposta non l’ho io e, probabilmente, neppure i (tanti) Legislatori che devono normare in modo definitivo la materia. Speriamo prevalga, in ogni caso, il vecchio e caro buonsenso, quello che difficilmente porta a decisioni sbagliate.

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