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Turchia al voto: bloody nose per il Sultano Erdogan?

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It’s the economy, stupid. È come sempre il portafogli a decidere come la gente pensa. Quindi, anche come vota. Domenica 24 giugno la Turchia andrà al voto per eleggere il suo nuovo presidente e per rinnovare il mandato della Grande Assemblea Nazionale Turca. I sondaggi delle ultime settimane registrano una sorpresa: Recep Tayyip Erdoğan potrebbe anche non stravincere. Già, perché le prime elezioni dopo la controversa approvazione della riforma costituzionale del 2017 vedono il cosiddetto “Sultano” in difficoltà su più versanti, e il suo AKP a forte rischio di perdere la maggioranza in Parlamento.

Dopo il golpe fallito del luglio 2016, la mano pesante di Erdoğan si è fatta sentire su tutto il derin devlet, il deep state turco, con un giro di vite senza precedenti sulla stampa, le università, la magistratura e, prima volta nella storia della Turchia del Novecento, le forze armate. Forte di un consenso che è stato decisivo nel respingere il pur rabberciato tentativo di rovesciarlo da parte di Akın Öztürk e dei golpisti, Erdoğan negli ultimi due anni ha voluto stravincere, trasformando la Turchia nella nazione al mondo che incarcera il maggior numero di giornalisti (a suo avviso sostenitori del golpe e del terrorismo anti-turco) e a capo di un regime politico che si è progressivamente allontanato dall’approdo alle democrazie occidentali e all’Unione europea per manifestare tratti neo-ottomani e apertamente autoritari.

Eppure, l’uomo che in molti hanno definito il più importante leader turco dopo Ataturk, ha fatto male i conti con il suo stesso popolo. Al di là della caricaturale immagine di “islamista” che buona parte della stampa mainstream occidentale gli attribuisce, Erdoğan ha sì restituito importanza alla religione e al proselitismo sunnita turco non solo in patria – le associazioni musulmane turche sono tra le più ricche e attive anche in Occidente e il Diyanet, ministero degli affari religiosi ha visto il suo budget crescere a dismisura a tal fine – ma ha costruito il suo consenso soprattutto sul boom economico e sullo sviluppo che hanno visto la Turchia crescere in maniera vertiginosa negli ultimi vent’anni: quelli nei quali prima da sindaco di Istanbul, poi da premier e, infine, da presidente, il leader dell’AKP è stato il deus ex machina di un Paese capace di passare da un Pil di 273 miliardi di dollari nel 2002 (anno in cui è diventato premier), a uno di 858 miliardi nel 2016 (fonte: Banca Mondiale).

La recente crisi dell’economia e la svalutazione della lira turca (-19 per cento nell’ultimo mese, -34 per cento da inizio anno) stanno determinando uno scollamento tra il presidente e la borghesia secolarizzata (e globalizzata) turca, che ha sempre guardato con sospetto l’esibizione della sua religiosità salvo chiudere un occhio quando c’era da fare ottimi affari. Specialmente con i partner occidentali, quelli che, da un po’ di tempo a questa parte sono al centro degli strali di Erdoğan. “Votatemi contro la lobby dei tassi di interesse e per dare fastidio all’Occidente”, ha detto il presidente a un recente comizio a Yenikapi, parte europea di Istanbul. Ma al di là della retorica anti-occidentale, il Sultano sa essere un politico pratico e doppiogiochista: quando Trump, Macron e May hanno bombardato la Siria di Assad, rea di avere utilizzato gas chimici lo scorso aprile, si è subito affrettato a posizionare la Turchia con gli alleati della Nato. Per quanto il rapporto con la Russia di Putin si sia rinsaldato sulla base di affari “nucleari” e non solo – l’azienda russa Rosatom implementerà la centrale turca di Akkuyu nella Turchia meridionale – Erdoğan, nei fatti, non ha mai messo in dubbio l’appartenenza della Turchia alla Nato, di cui rappresenta il secondo esercito più numeroso.

I repubblicani del CHP, reduci da batoste memorabili e ridotti a minoranza da quasi due decenni, sembrano avere trovato il candidato giusto per andare oltre alla loro constituency laica e secolarizzata: si tratta di Muharram Ince, ex professore di fisica, parlamentare dal 2002, ataturkiano ma anche con una moglie e una figlia che non si fanno problemi a farsi vedere in pubblico velate. Una rivoluzione per i repubblicani. Tra gli altri candidati forti a sfidare Erdoğan, c’è Meral Akşener, del neonato İYİ, Partito della Bontà, ex viceministro dell’interno e vicepresidente del Parlamento. Akşener è la lady di ferro della politica turca: ha lasciato il partito nazionalista di Devlet Bahçeli, alleato di Erdoğan, rompendo sul sostegno alla riforma costituzionale, da lei avversata. Quarto candidato è Selahattin Demirtaş, leader del Partito Democratico dei Popoli (HDP) curdo, che parteciperà alla contesa dal carcere dove è in attesa della sentenza del processo in cui è accusato di sostenere le azioni del gruppo terroristico del PKK. Il pm ha chiesto per lui una condanna fino a 142 anni di reclusione. Nonostante ciò, Demirtaş resta un leader molto popolare tra i curdi del sud-est del paese e tra i delusi della sinistra repubblicana: non è escluso che alle legislative la sua Alleanza per il Kurdistan composta da 3 partiti riesca a superare la soglia del 10 per cento prevista per l’ingresso in Parlamento.

Passiamo ai sondaggi allora. Tutti danno come molto probabile un ballottaggio l’8 luglio se Erdoğan non raggiungerà il 50 per cento. Il presidente uscente sarebbe in vantaggio su entrambi i possibili sfidanti, il repubblicano Ince e la Akşener, ma con margini da non restare tranquilli: l’istituto demoscopico turco Remres dà un vantaggio di 2,4 punti di Erdoğan sulla leader del Partito della Bontà, e di 7 su Ince, dopo che nelle settimane precedenti aveva dato un distacco inferiore al punto percentuale.

Altro scenario per la Grande Assemblea, i cui componenti passano da 550 a 600. Quasi certamente l’alleanza AKP-MHP non raggiungerà la maggioranza dei seggi, anzi. Non è detto che il cartello anti-Erdoğan dei repubblicani e dei liberalconservatori della Akşener, denominato Alleanza Nazionale, non ottenga la maggioranza dei seggi. In quel caso Erdoğan sarebbe costretto a una cohabitation, come quella degli anni ’90 tra Chirac e Jospin in Francia. Seppure resti il favorito numero uno per la vittoria, il presidente teme l’esito delle urne: pare stia consigliando ai suoi sostenitori di andare al voto presto domenica mattina per orientare già da subito la contesa, e stia accrescendo la sua pressione sui media già in buona parte sotto la sua egida. Forse Erdoğan vincerà, ma è molto probabile che, se lo farà, avrà un bloody nose da curare.

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