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Un taglio alla cattiva politica. Perché ora è importante capire il “popolo del Sì”

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Ora è importante capire cosa ha spinto la stragrande maggioranza degli elettori a votare Sì al referendum sul taglio del numero dei parlamentari. Cerchiamo di farlo anche per il piacere di distinguerci da quel brutto vezzo della sinistra che all’indomani di esiti elettorali sgraditi si esercita nel giudizio sprezzante nei confronti del “popolo bue”. Fu il poeta comunista Brecht a stigmatizzare l’impulso irrefrenabile della sinistra a considerare i popoli “non all’altezza” dei diktat ideologici del marxismo: “Il Comitato centrale ha deciso: poiché il popolo non è d’accordo, bisogna nominare un nuovo popolo”.

Bello stile liberale richiederebbe viceversa il rispetto del voto: un rispetto ancor più profondo quando il corpo elettorale si pronuncia in maniera contraria alle proprie intenzioni. Tu puoi essere persuaso di aver ragione e quando la tua ragione è minoritaria è lecito dire che la maggioranza ha imboccato la via sbagliata, ma nello stesso tempo bisogna sforzarsi di capire quale esigenza ha fatto da navigatore per quella via.

Questa indicazione di metodo arriva al cuore del concetto di rappresentanza: il principio democratico della maggioranza non serve per individuare “ciò che è vero”, ma serve ad esprimere in maniera pacifica quelle che sono le esigenze dei più. Per questo sono sommamente stupide quelle polemiche sul voto dato solo ai competenti, sul voto da togliere “agli ignoranti”, che di norma vengono individuati tra coloro che non ascoltano le paternali del “Comitato centrale”. E invece anche “l’ignorante” o presunto tale ha diritto ad esprimere attraverso il voto quella che è la sua esigenza.

Veniamo al punto: quale esigenza ha manifestato quel 70 per cento di elettori? Facile ipotizzare che il “popolo del Sì” esprima il disprezzo per un ceto politico che è stato livellato verso il basso: “Tagliamoli questi inetti, questi indegni”, è il messaggio che è passato. Si dirà che tali sentimenti sono il frutto avvelenato di un buon trentennio di “anti-politica”. Però siamo onesti: se l’anti-politica è montata è anche perché il ceto politico si è attirato qualche meritato sberleffo.

Chi ha votato No ha difeso le ragioni alte della rappresentanza politica che non si svende per un caffè, ma chi ha votato Sì evidentemente lancia un “grido di dolore” contro la decadenza antropologica del ceto politico.

Ora “che fare” (e prometto che questa è l’ultima citazione dal frasario paleo-comunista)?

La risposta è una formula di facile enunciazione, di complessa attuazione: chi aspira al governo per migliorare le sorti dell’Italia ritorni a selezionare le classi dirigenti. Una volta c’erano le scuole di partito, nei sistemi presidenziali ci sono gli staff di competenti attorno al decisore.

I leader politici – e ci rivolgiamo ai leader del centrodestra – si inventino qualcosa per selezionare classi dirigenti degne, che non suscitino “ironia”, a voler usare un termine soft.

Questa è la lezione arrivata dal 70 per cento degli elettori che ha votato Sì. Chiniamo il capo davanti al responso della maggioranza referendaria.

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