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Una nuova relazione fiscale tra stato e cittadini per potenziare libertà di scelta e qualità dei servizi

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Viviamo tempi burrascosi, in cui pandemia e relative misure di contenimento monopolizzano l’attenzione mediatica. E, tutto sommato, è comprensibile che sia così, visto che le nostre future prospettive di libertà dipendono anche dalla fermezza delle reazioni opposte dall’opinione pubblica di fronte all’arbitrarietà di restrizioni che in molti (troppi) casi sembrano più che altro tentativi di testare il grado di sopportazione e accettazione da parte dell’elettorato.

Tuttavia, dando per verosimile – oltre che auspicabile – che prima o poi si torni alla normalità pre-Covid, è fatale che si ripropongano, prepotenti, gli stessi problemi (aggravati, per di più) e le stesse domande che già caratterizzavano il dibattito pubblico. E, tra questi, il re dei problemi nonché nodo nevralgico del rapporto tra stato e cittadini, e tra i cittadini stessi: la riforma fiscale. Sarà allora opportuno arrivare alla battaglia armati di solidi argomenti e di proposte persuasive, capaci di rivoluzionare il modo in cui possiamo dare espressione alla nostra autonomia decisionale e dunque alle nostre legittime aspirazioni.

La proposta fiscale che esporrò brevemente in questa sede vuol essere solo un modello generale, un disegno ideale che permetta di reinterpretare la relazione fiscale in modo da potenziare la libertà di scelta dell’individuo. Ma veniamo al dunque.

Perché, invece di pensare alle tasse come coercizione “imposta” non ribaltiamo il ragionamento e le trasformiamo in opzione realmente (sebbene sempre solo parzialmente) scelta? Ecco allora l’idea: tre (o più) livelli di coinvolgimento fiscale tra cui il cittadino possa liberamente scegliere. Pensiamola così: potremmo essere cittadini di serie A, B o C (e quant’altre lettere vogliate aggiungere). Il livello A potrebbe rappresentare il “grado minimo”, nel quale il cittadino si dichiara disposto a contribuire con le proprie tasse al pagamento dei soli servizi minimi: difesa nazionale, polizia e sistema giudiziario. Il livello B potrebbe includere, oltre ai precedenti servizi, anche sanità ed educazione pubbliche. E nel livello C si potrebbe aggiungere anche la redistribuzione dei redditi e il sistema previdenziale pubblico.

A fronte di ciascun tipo di cittadinanza si richiederebbe un diverso ammontare massimo di imposte che il cittadino sarebbe chiamato a pagare; a maggiori servizi richiesti, maggiori aliquote contributive. Non si tratta, in questa sede, di entrare nei dettagli di un sistema fiscale così congegnato, quanto piuttosto di stabilire un principio. E il principio appena proposto si avvicina molto a quella corrispondenza tra imposte e servizi ricevuti dal cittadino tanto cara a Luigi Einaudi, articolato però secondo linee chiaramente ispirate a una reale possibilità di scelta da parte dei cittadini.

Cosa ci sarebbe da guadagnare da un tale sistema? Tutto, direi. Innanzitutto, farebbe sì che il sistema tributario rispetti e rifletta realmente i diversi gradi di coinvolgimento e partecipazione dei cittadini nel meccanismo statale. Rispetterebbe insomma i desideri dei cittadini senza renderli inermi di fronte a un Leviatano che non hanno scelto ma a cui sono assoggettati come conseguenza di un’estrazione della lotteria esistenziale. In altre parole, gli individui sarebbero finalmente messi in condizione di scegliere (ma in concreto, non come nelle astratte formulazioni della “volontà generale”) quale contenuto dare al contratto sociale che li lega allo stato.

Sento già le prevedibili obiezioni dei soliti noti: “Ma così nessuno vorrebbe pagare più del minimo, e i poveri ne risulterebbero pregiudicati!”. Molto probabilmente una proporzione non piccola di contribuenti deciderebbe di fare a meno di alcuni servizi pubblici e preferirebbe non partecipare al meccanismo redistributivo. E allora? Lo Stato non vanta alcun diritto naturale sui cittadini giacché, anche secondo i teorici del contratto sociale, esiste solo in quanto agente dei cittadini stessi. Dunque, ampliare le possibilità di scelta degli stessi contraenti del contratto non dovrebbe costituire un problema per nessuno.

Quanto alla protezione dei poveri, se solo di questo si trattasse, lo stato non avrebbe bisogno di assorbire la metà del reddito nazionale, ma sarebbe sufficiente un 5-10 per cento del Pil. Allo stato attuale ci siamo spinti troppo, e da troppo tempo, sulla strada della spoliazione fiscale, ed è per questo che una crescita economica robusta — unica vera protezione contro la povertà — è animale raro quanto un orso polare in Somalia. Peraltro, introducendo una concorrenza reale tra privati e stato nella fornitura di servizi sanitari, educativi, pensionistici e d’altro genere, si spingerebbe quest’ultimo a migliorare sensibilmente la propria offerta, a beneficio, anche e soprattutto, dei più vulnerabili. I servizi non necessari semplicemente scomparirebbero, con gran sollievo di (quasi) tutti.

Il sasso è gettato nello stagno: apriamo dunque le finestre del dibattito e facciamo circolare aria nuova, aria fresca. Senza tabù e con spirito libero.

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