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Uno Stato a rotelle: se in emergenza la burocrazia trionfa più che mai

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Vi sono circostanze della vita nelle quali è necessario fermarsi un attimo a riflettere e chiedersi se quanto noi stiamo facendo nella società civile (ammesso che n’esista ancora una) sia ancora utile per noi e per i nostri consimili. In un momento storico come questo, caratterizzato da un’estrema incertezza del futuro nonché dall’amara constatazione che molti dei punti fissi del nostro lavoro si sono rivelati assai meno fissi di quanto era legittimo aspettarsi, sarebbe logico assistere ad un profondo rinnovamento nel mondo del lavoro e nel modo di approcciarsi alle nuove evidenze. Al contrario, succede l’esatto contrario. Assistiamo, impotenti e frastornati, al perpetuarsi di riti bizantini di conservazione delle posizioni acquisite, che non tengono mimamene conto di quanto ci è capitato tra capo e collo da un paio d’anni in qua. Una delle più evidenti e tristi prove di quanto affermo è la mancata considerazione di come certi elementi esogeni al mondo del lavoro avrebbero dovuto spingere le parti sociali e tutti i protagonisti dell’area produttiva del Paese a cambiare registro, a considerare inefficaci, se non dannose, tante pratiche consolidate nei tempi della pre-pandemia.

Inutilmente abbiamo sperato in nuovi schemi che meglio si attaglino alle reali necessità di questi interminabili giorni dell’emergenza di Stato. Dove avremmo potuto legittimamente attenderci una semplificazione estrema della burocrazia spicciola (quella che complica e rallenta ogni pratica amministrativa) vediamo invece aumentare a dismisura i formulari insulsi ed incomprensibili ai più per ottenere l’ennesima certificazione, il nulla osta, il lasciapassare di antica memoria. Si moltiplicano persino le imperscrutabili ed incostituzionali “cabine di regia” ed i comitati tecnici nazionali,  laddove bastavano fino pochi mesi orsono i Ministeri con i loro sottosegretariati, le Regioni coi loro numerosi assessorati, le Province (mai del tutto abolite) ed i sindaci a complicarci la vita. Ma se anche prima del Covid potevamo prendercela con ministri, presidenti di Regione e sindaci (comunque eletti, il che non guasta mai), ora manco ci è dato sapere chi faccia parte della cabina di regia del momento.

Mentre scrivo, l’audio di una televisione locale accesa poco distante dal mio posto di lavoro mi sta rendendo edotto che per meglio applicare il famigerato PNRR (che, mi pare, significhi Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) si stanno moltiplicando le “cabine di regia” pubbliche e private che ci dovrebbero aiutare a caprine qualcosa e (forse) ad essere reali percettori di qualche volgarissima sommetta di danaro che, alla fine, dovrebbe darci una mano per non chiudere la propria attività in costante perdita. Perché, cari amici dei PNRR e delle cabine di regia, alla fine, per tantissimi italiani che devono lavorare per vivere, di questo si tratta: ricevere un aiuto concreto per non chiudere baracca, molto spesso lasciando senza lavoro altri lavoratori. Con le cabine di regia non ci paghiamo le bollette dell’Enel o del gas e quelli, dopo breve tempo e senza sentire ragione ci chiudono il contatore.

Sembra proprio che ai soloni che stanno rigirandosi tra le mani il PNRR, come fosse un cubo di Rubik per trovarne il verso, delle innumerevoli chiusure dei contatori per morosità non interessa un accidente. Se l’azienda chiude, se il pensionato rimane al freddo, se chi potrebbe ancora dare il proprio contributo lavorativo ha il fermo amministrativo sull’unica auto che gli servirebbe per lavorare, ai soloni delle cabine di regia non importa un fico secco. Si spende danaro pubblico per fare pubblicità battente su quanto sia delizioso essere titolari del codice SPID, che ci dovrebbe evitare code agli sportelli pubblici, senza minimamente avere capito che oltre la metà di chi ha provato ad intraprendere la trafila burocratica per ottenerlo si è arresa ed ha rinunciato, per non parlare della certificazione ISEE (il cui significato esatto non m’interessa minimamente e nemmeno perdo tempo per andare a cercarlo sul web), presupposto indispensabile per ottenere qualsiasi aiuto di Stato, che, a quanto mi dicono gli addetti ai lavori, è talmente macchinoso e stancante da indurre moltissime persone a non beneficiare di tali aiuti (tranne il Reddito di Cittadinanza che sembrerebbe essere facilissimo da ottenere anche per chi nemmeno sa leggere e scrivere nella lingua italiana, ma questo è un altro discorso…).

Mi si dimostri il contrario: la burocrazia trionfa più che mai anche in emergenza e le recenti incomprensibili diversificazioni del c.d. “green pass” dimostrano ampiamente che sempre più i nostri governanti ci stiano trattando da imbecilli. Imbecilli che necessitano di almeno tre lasciapassare diversi per uscire di casa, lavorare, andare a trovare i genitori anziani, a prendere i figli a scuola. Imbecilli che nemmeno possono fidarsi di documenti ufficiali perché il contenuto scritto su tali documenti dura meno di un mese. E’ lo stato di emergenza, baby! Temo che sarebbe più opportuno parlare di Stato di emergenza, ossia di uno Stato ormai basato sulla decisione dell’ultimo momento, di uno Stato basato su rotelle (magari recuperate dai ridicoli banchi di scuola ormai messi fuori norma), di uno Stato che non sta e che magari è stato, di qualcosa che potrebbe costarci carissimo in futuro, una volta presa l’abitudine a sospendere con disinvoltura e senza il necessario passaggio parlamentare certi diritti insopprimibili degli italiani. Dico “degli italiani” perché all’estero, su queste materie, ci vanno assai più cauti.

Assistiamo quotidianamente a certi paradossi che chi non si confronta ogni giorno nemmeno immagina. In pieno stato (o Stato) d’emergenza, la mancata apposizione di una marca da bollo ferma qualsiasi pratica urgente ed espone, addirittura, a conseguenze puntualmente sanzionate e se, poveretti e disinformati sudditi, vi presentate in Comune per rinnovare la carta d’identità ma, sciocchini che non siete altro, vi siete premuniti di proletarie fotografie formato tessera, vi mandano indietro: ci vuole la fotografia in formato passaporto. Che poi la fantasmagorica carta d’identità con vistoso chip a tutt’ora non permetta operazioni di identificazione elettronica, così come la tessera sanitaria vi permette unicamente di comprare le sigarette al distributore automatico è ancora altro discorso: a noi chiedono di adeguarci all’ultima fantasiosa norma in meno di 24 ore, ma lo Stato (e quello di emergenza non si discosta da quello costituzionale), dopo avere sperperato miliardi nella realizzazione delle infrastrutture per leggere i documenti elettronici, non sembra ancora capace di farli funzionare come dovrebbero. Il principio, ahinoi, rimane quello del Marchese del Grillo: “Io sò io e voi non siete un …”.

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