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Xi prova a tirare la corda, ma Trump tiene duro: come Cina e Usa stanno giocando la partita del commercio

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La tattica negoziale cinese non è nuova, e in passato bisogna dire che ha funzionato più che discretamente: mettere sul tavolo aperture e concessioni per creare un clima di fiducia tra le parti, per alimentare ottimismo sul buon esito del negoziato per poi, proprio all’ultimo miglio, in dirittura d’arrivo, ritirarne una buona parte, o annacquarne la sostanza con formule ambigue, spogliando i testi dai riferimenti legalmente vincolanti. Insomma, alzare o abbassare la posta all’ultimo, a seconda del suo interesse, nella speranza che la controparte non abbia il fegato di deludere le aspettative generate e si accontenti quindi di un accordicchio largamente depotenziato. Che sia questo il calcolo di Pechino, o un modo per guadagnare tempo nella speranza di trovarsi, fra un anno a mezzo, a negoziare con Joe Biden o “uno dei molto deboli Democratici”, come ha ipotizzato il presidente Trump su Twitter, fatto sta che nella notte di venerdì scorso trasmetteva a Washington “revisioni sistematiche” – secondo quanto riporta la Reuters, citando fonti governative e del settore privato – a una bozza di accordo commerciale di quasi 150 pagine tali da “mandare all’aria mesi di negoziati”.

Passi indietro che minano le fondamenta stesse dell’accordo. “In ciascuno dei sette capitoli della bozza, la Cina ha di fatto cancellato i suoi impegni a modificare le sue leggi” in modo che rispondano alle richieste avanzate dagli Stati Uniti sulle questioni alla base della guerra dei dazi: furto di proprietà intellettuale e di segreti commerciali; trasferimenti forzati di tecnologia; accesso ai servizi finanziari; manipolazione monetaria; concorrenza sleale; eccessivi sussidi statali.

Ma a Pechino non sembrano aver fatto bene i conti con il presidente Trump, che ha reagito, domenica, annunciando l’aumento dal 10 al 25 per cento dei dazi Usa su 200 miliardi di prodotti cinesi a partire da questo venerdì.

Una mossa che avrebbe potuto avere come primo effetto la cancellazione del nuovo e decisivo round di negoziati previsto per oggi e domani a Washington. Invece, Pechino ha confermato l’arrivo nella capitale americana della sua delegazione, guidata dal vicepremier Liu He, per i due giorni di colloqui che a questo punto però difficilmente produrranno i risultati sperati.

L’amministrazione Trump chiede a Pechino interventi legislativi, mentre sempre secondo le fonti citate da Reuters, la scorsa settimana Liu ha chiarito al rappresentante per il commercio Lighthizer e al segretario al Tesoro Mnuchin che gli Stati Uniti dovranno fidarsi che la Cina onorerà le sue promesse attraverso aggiustamenti amministrativi e regolatori. Inaccettabile per Washington, dato il record di promesse di riforma non mantenute da parte di Pechino. Proprio per questo, uno degli ultimi ostacoli ancora da superare era il sistema di verifica dell’attuazione e rispetto degli accordi. Gli Stati Uniti premono per un “meccanismo molto simile a quello delle sanzioni”, che prevederebbe dazi automatici a fronte di inadempimenti da parte cinese.

Una fonte del settore privato informata sulle trattative ha riferito a Reuters che l’ultimo round negoziale è andato molto male, perché i cinesi “sono diventati ingordi”, “si sono rimangiati una dozzina di cose, se non di più…”. I colloqui sarebbero andati “così male che la vera sorpresa è che Trump ci abbia messo fino a domenica per reagire”.

“Gli Stati Uniti hanno avuto indicazione che la Cina vuole fare un accordo commerciale”, ha dichiarato la portavoce della Casa Bianca. “Stanno venendo per fare un accordo”, ha twittato Trump, aggiungendo però beffardamente: “Vedremo, intanto sono molto felice per gli oltre 100 miliardi di dollari l’anno di dazi che riempiono le casse degli Stati Uniti. Ottimo per gli Usa, non bene per la Cina”. È evidente che da parte della Casa Bianca si tenti di reagire alla sterzata di Pechino minacciando l’escalation dei dazi, ma al tempo stesso mostrando ottimismo sulla sua volontà di chiudere un accordo, sia per “responsabilizzare” la leadership cinese, richiamandola agli impegni presi, sia per tranquillizzare i mercati, che avevano “scontato” il raggiungimento di un’intesa.

Ma l’entità dei passi indietro nel testo emendato è tale da far ritenere che la risposta di Trump non sia solo strategia negoziale. Può preludere davvero a un fallimento e a una escalation nella guerra dei dazi.

Dall’andamento positivo dell’economia americana sembrerebbe che almeno finora i maggiori costi di esportazione dovuti ai dazi Usa siano stati sopportati in massima parte dagli esportatori cinesi (immaginate quali fossero i margini!), e quindi che Trump abbia ancora il coltello dalla parte del manico. Ma fino a quando? Per quanto tempo prima che il perdurare della guerra tariffaria, o una sua escalation a colpi di rappresaglie reciproche, già minacciate da Pechino, abbiano un impatto negativo anche sull’economia Usa, proprio mentre si avvicina l’anno elettorale? Chi si farebbe più male?

D’altra parte, la tenuta del Pil cinese rispetto alle previsioni e della bilancia commerciale (grazie a una forte contrazione delle importazioni) potrebbe aver indotto Pechino a rimettere in discussione la bozza di accordo per prendere tempo.

Hu Xijin, direttore del Global Times, tabloid del Partito Comunista Cinese, ha avvertito che “sebbene le delegazione cinese abbia deciso di recarsi negli Stati Uniti per i negoziati, la situazione è più tesa di quanto i media occidentali suppongano. Le possibilità di un’escalation stanno seriamente aumentando”. E ha spiegato che “la Cina è pienamente preparata per una guerra commerciale. È una nuova strategia della Cina impegnarsi nei negoziati e al tempo stesso combattere una guerra commerciale. Credo che la Cina punti sul fatto che la sua politica è più forte di quella americana. La guerra commerciale alla fine sarà decisa dalla politica interna”.

Pare quindi che a Pechino la linea che sta prevalendo sia quella di puntare sui diversi sistemi politici, sui vantaggi in termini di compattezza del modello autoritario rispetto a quello democratico e sulla maggiore sensibilità di Washington ai richiami e alle pressioni dei mercati occidentali. È vero che Xi Jinping non deve rendere conto all’opinione pubblica cinese, non ha bisogno di essere rieletto per mantenere il potere, ma non può nemmeno con leggerezza sottovalutare l’impatto che avrebbe sulla sua autorità una crisi economica e l’esplosione dell’instabilità sociale. E non sarei poi così certo che Trump sia alla disperata ricerca di un accordo purchessia, in chiave elettorale. Potrebbe essere vero il contrario: mettere al centro della campagna un duro confronto con la Cina, a suon di dazi, potrebbe portargli più voti – e bipartisan.

Piuttosto che capitolare o alzarsi dal tavolo, Trump ha aumentato la pressione sulla Cina con l’ulteriore aumento dei dazi, per far capire a Pechino che i vecchi tempi sono finiti per sempre: o si adattano alla nuova situazione di un’America non più disposta a credere alle promesse mentre continua a subire le politiche predatorie altrui, o si preparano ad affrontare le conseguenze di una nuova Guerra Fredda.

D’altra parte, quello che Trump sta chiedendo a Xi non è cosa da poco: cambiare il modello di sviluppo economico fino ad oggi alla base dei successi cinesi e dell’ascesa di Pechino come potenza globale. Ammesso che Washington abbia ancora la forza necessaria per imporre tale svolta, difficile che avvenga in un colpo solo. Più probabile un percorso a tappe, un susseguirsi di tregue, accordi parziali e crisi. Una lunga partita a scacchi.

Nel frattempo, il segretario di stato Pompeo è volato a Londra per incontrare la premier britannica May e il ministro degli esteri Hunt: portate cinesi (Huawei) e iraniane, c’è da scommettere, nel suo menù.

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