Eventi dislocati, l’uccisione degli ebrei nei pogrom, il loro sterminio industrializzato nei campi di concentramento, la loro uccisione tramite esplosivi in una pizzeria del centro di Gerusalemme o sopra un autobus mentre vanno al lavoro o tornano a casa, si appiattiscono in un fotogramma dell’orrore. Il tempo delle vittime è un tempo solo.
Così si legge, a un certo punto, nel secondo romanzo a tema “ebraico” – il primo è stato “La luce del regno”, edito da La Giuntina – dello scrittore e saggista Niram Ferretti, intitolato “Nell’attesa del messia” (Historica edizioni).

Il libro è una profonda riflessione metapolitica sul destino dello Stato d’Israele e sulla condizione ebraica, nella quale si specchia e s’interroga la condizione umana intesa come metaxy, ossia tensione costante tra consapevolezza della caducità del mondo e anelito al divino. Un libro che si può leggere in un pomeriggio, ma meditare per mesi.
La trama
La trama del libro è piuttosto tenue: un ebreo italiano, Emanuel Rosenthal, scrittore di successo attratto da temi messianici e travagliato da un sofferto senso d’incompiutezza, per ottemperare a una promessa fatta all’amata madre recentemente scomparsa e vendere una casa di famiglia, torna a Gerusalemme dopo trentatré anni di assenza.
In uno Stato di Israele straziato dalla Seconda Intifada, il protagonista sarà costretto dalle circostanze a confrontarsi con le ombre e i rimossi della sua coscienza d’individuo e di ebreo. Emanuel ha vissuto tutta la propria vita accanto al fantasma del fratello maggiore, Gabriel, perito a 23 anni combattendo nella Guerra dei Sei Giorni.
Ebrei della Diaspora e di Israele
Tanto titubante il primo, quanto coraggioso il secondo, il rapporto fantasmatico tra i due fratelli, la loro impossibilità a comunicare dettata dalla distanza siderale che separa i morti dai vivi, simboleggia la lontananza esistente tra gli ebrei della Diaspora e Israele, discordanza esplosa all’indomani dei fatti del 7 Ottobre, che hanno visto numerosi ebrei diasporici condannare la legittima reazione israeliana al pogrom compiuto da Hamas.
Come numerosi israeliti della Galut, il protagonista non nutre sentimenti di appartenenza nei confronti di Israele, pur sapendo che così facendo “ha rinunciato a una parte essenziale di se stesso”. Divenuto spettatore della ferocia omicida del terrorismo islamico, Emanuel non può fare a meno d’interpellarsi anche sull’essenza dell’antisemitismo e la morte che sempre lo accompagna.
L’odio più antico
Attraverso una serie di dialoghi fulgenti, viene svelata la natura profonda di quello che lo storico Robert Wistrich ha chiamato “l’odio più antico”:
L’odio per gli ebrei è un odio inestinguibile, ci accompagna e continuerà a farlo, dobbiamo metterlo in conto. Più resistiamo e più ci odieranno, più combattiamo per affermare il nostro diritto all’esistenza, più chi ci odia si sentirà provocato.
L’antisemitismo emerge da un fondo oscuro, irrazionale, sostanzialmente “impenetrabile”, la cui scaturigine non è né sociale né politica, bensì metafisica, profondamente connessa al mistero del Male e al suo operare nel mondo. È l’odio per l’ebreo in quanto ebreo, “una buona motivazione, sufficientemente potente. A Hitler bastava quella, al Mufti di Gerusalemme anche”, come afferma lo zio del protagonista.
L’obiettivo degli islamisti è il medesimo dei nazisti: spezzare lo spirito ebraico, ossia “distruggere la pretesa che la storia abbia un senso, che in essa possa mai manifestarsi la verità nella forma della bellezza, della bontà, dell’ordine, vuole spazzare via ogni significato”. Il popolo ebreo, fin dai tempi dei faraoni, ha resistito e tuttora resiste a queste forze distruttive e annichilenti.
Tali forze non assediano solo Israele e il mondo libero ma, a un livello più esistenziale, anche il protagonista del romanzo, inducendoli una fiacchezza dell’animo, che si traduce in una fuga dal futuro, quel “tempo differito in cui, un giorno, a ogni cosa verrà dato il suo perché”, come lo definisce Ferretti nel suo precedente romanzo.
L’ordito della memoria
Come resistere al male fuori di noi e alle ombre che albergano in noi? L’autore, mediante la catabasi di Emanuel Rosenthal, avanza un proposito: ricomporre l’ordito della memoria, per ritrovarsi umilmente in una storia che si snoda nei millenni, perché solo così è possibile conservare la fiducia nell’avvenire. Si chiede a un certo punto il protagonista:
Non spetta forse a noi alla fine, chinarci sulla storia, e in modo particolare sulla nostra storia per cercare con le nostre deboli e insufficienti forze di redimerla, salvando laicamente tutti i nostri morti dall’oblio, ricongiungendoli al presente, facendo deflagrare il presente al cospetto del loro manifestarsi nella continuità che ci lega alle generazioni del passato?
Amore per la vita
È una domanda, ma sottintende una risposta affermativa, che esprime quella volontà di “essere”, quell’amore per la vita, non nel senso di una banale gioia dello stare al mondo, bensì come solenne celebrazione della vita fin dentro il dramma della morte, che da sempre contraddistingue il popolo ebraico.
Cosa sostiene Israele se non il pianto e la speranza delle madri ebree? Quelle madri straziate, raccolte attorno a fresche salme di soldati ancora emananti odore di dattero, che l’autore porta su un palcoscenico immaginario:
Cosa si deve sperare ancora, per chi, per cosa? La nostra speranza è morta, con i nostri figli morti, eppure dobbiamo farlo, continuare a sperare, per altri figli, per i figli che verranno, altri figli, non i nostri, qui, dove ci troviamo, nel tempo che ci è dato, nell’attesa del Messia.
Niram Ferretti, con un romanzo breve, è riuscito a cogliere l’essenza lacerata (aggettivo che ricorre spesso nel libro) di Israele e a restituirla al lettore in tutta la sua tragicità, che altro non è, come si diceva, se non l’epitome della conditio humana. Un lunghissimo kaddish. Infinita tristezza, infinita speranza.