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Bettino Craxi, un nuovo volume di scritti di politica estera: il tempo galantuomo (mai abbastanza) gli restituisce la dimensione di statista che merita

Sono abbastanza vecchio, ormai, per ricordare – nel mondo politico al quale mi affacciavo, e nei media, nelle redazioni – il senso di irrispettoso fastidio che, negli anni dell’esilio di Bettino Craxi ad Hammamet, accompagnava l’arrivo dei suoi fax, delle sue dichiarazioni, delle sue note.

Per meglio liquidarne il contenuto, per attutirne la potenza, per rimuovere ogni discussione, erano state messe a punto due tattiche di reazione. La prima, quella giustizialista-manettara-comunista, quella dei nemici: è il “latitante” che parla. E così, con l’anatema preventivo, ci si era tolti il pensiero di dover leggere cosa scriveva. La seconda, quella degli ex “amici”: è un uomo “prigioniero del rancore”. Come a voler dire: sì, potrebbe anche cogliere qualche punto, ma il tratto dominante è il livore di chi è stato sconfitto, la perdita di nitore del suo sguardo sulle cose. In questo modo, gli uni e gli altri si toglievano il pensiero e archiviavano la discussione.

Ma avevano fatto male i loro conti, forse. Il tempo è (un po’, solo un po’) galantuomo: mai quanto sarebbe necessario, mai abbastanza, a onor del vero. E probabilmente, fuori tempo massimo, senza che ciò possa restituirgli consolazione per le sofferenze subìte, gli ultimi vent’anni hanno restituito a Bettino Craxi la dimensione che gli appartiene: quella di statista, e quella di uomo dotato di una visione, di una bussola.

La si può condividere o no. Se ne possono vedere alcuni limiti. Ma l’idea – in politica interna – di aprirsi uno spazio riformista tra comunisti e democristiani; l’ossessione positiva – in economia – per la crescita; e l’ambizione – in politica estera – di una dimensione euromediterranea per l’Italia sono tre punti fermi che gli andrebbero riconosciuti.

Adesso, è appena uscito per Mondadori, a cura della Fondazione Craxi, il volume “Uno sguardo sul mondo”, che racchiude nuovi e inediti appunti e scritti di politica internazionale: sia nell’arco del suo impegno politico, sia negli anni ad Hammamet. Ne esce fuori, come scrive Nicola Carnovale nella sua bella prefazione, un Craxi “totus politicus”, che mescola in modo personalissimo e originale i connotati di atlantismo, anticomunismo e autonomia nazionale, di volta in volta insistendo di più (o di meno, come si sa) sull’uno o sull’altro elemento.

Bettino Craxi, Uno sguardo sul mondo
a cura della Fondazione Craxi
Mondadori 2018

Colpiscono in particolare le pagine lucidissime, direi visionarie e lungimiranti, sulla fragilità e per molti versi l’assurdità della costruzione europea, alla quale Craxi non era affatto contrario, ma di cui vedeva già le contraddizioni. E la sua amara ironia (“solo in Italia sono tutti europeisti purosangue, giovani, vecchi, donne e bambini, da Prodi a Berlusconi: non spiegano bene di cosa si tratta e si tratterà, ma sono egualmente europeisti al cento per cento”) mostra bene quanto avremmo avuto bisogno, negli ultimi anni, non di cori di voci bianche “euroliriche”, ma di una robusta visione eurocritica, eurorealistica, europragmatica.

Il sarcasmo di Craxi si fa feroce sulla “fanfara europeista”, tanto quanto la sua visione è nitida “sull’euro che non sarà un miracolo”. L’ex leader del Psi, tra il 1996 e il 1998, negli anni dell’esilio, ha il coraggio di parlare di una “Unione monetaria prematura, malaticcia”, che “non creerà alcun paesaggio fiorito”, ma “costerà posti di lavoro”. E aggiunge: “Bisogna discutere senza pregiudizi dei rischi dell’euro”. Per capirci, sono più o meno gli stessi anni in cui Romano Prodi sostiene invece che con la nuova moneta “lavoreremo un giorno di meno guadagnando come se si stesse lavorando un giorno di più”.

Ogni capitolo di questa raccolta merita una lettura attenta, profonda, non di rado commovente. E c’è anche modo di indignarsi, insieme a Craxi, contro l’ipocrisia di comunisti ed ex comunisti italiani: rileggere le pagine dell’archivio Craxi sui rapporti tra Pci e Urss fa pensare ai molti sepolcri imbiancati, miracolosamente sfuggiti al giudizio della storia, servi italiani per decenni di un regime assassino e criminale, e non di rado transitati – successivamente, comodamente, a costo zero – a dare lezioni di principi occidentali, di modernità, e perfino di liberalismo.

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