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“Yes, We Trump”. Un uomo solo al comando con una costante: sempre contro l’establishment

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Per descrivere un “uomo che buca lo schermo”, un presidente “ingombrante” che straripa da tutti i video e cinguetta a ritmo frenetico, la strategia interpretativa migliore forse è quella di far scorrere una sequenza di immagini che lo riguardano, lasciando che il lettore si faccia una impressione complessiva riguardo a un personaggio che rimarrà sempre controverso: The Donald.

Yes, We Trump. Chi riuscirà a fermarlo?” è il titolo del libro di Luca Marfè, pubblicato da Paesi Edizioni con prefazione di Federico Rampini e postfazione di Giulio Terzi di Sant’Agata. Il titolo, che ai nostalgici del sogno obamiano apparirà irriverente, suggerisce l’idea che il più improbabile di tutti i presidenti sia riuscito a dimostrare nella pratica che tante cose che sembravano proibite dal galateo lessicale-istituzionale non solo si potevano fare, ma in molti casi funzionano anche bene.

Prima immagine: “C’è una ragazza che sembra una statua, e resta così, a fissare il vuoto e a non sentire il freddo di questa notte d’autunno, di questa stagione politica di gelo”. La militante “clintoniana” evocata da Marfè nella notte fatale della elezione di Trump avvertiva un senso attonito di svuotamento, come se tutte le sue ragioni di vita fossero state calpestate dall’orribile “crimen lesae maiestatis” della bocciatura di Hillary.

Agli omologhi italiani di quella militante in profondo blu, Luca Marfè pacatamente cerca di spiegare che “l’America non è New York, non è Los Angeles, non è una settimana di vacanza a Miami. Sono gli operai del Michigan che nella pausa pranzo bevono una birra al sole. Sono le armi in casa e i pacifisti in piazza. Sono i duri e gli spacconi. Sono i meccanici con i calendari di donne nude. Sono le donne, nude o bigotte…”. E dopo aver mostrato la complessità delle Cinquanta Stelle aggiunge una notazione illuminante: l’establishment del Partito democratico “da troppo tempo e per lunghi tratti ha dato più la sgradita sensazione di essere alla ricerca di un segretario generale delle Nazioni Unite che non invece di un presidente degli Stati Uniti”.

Da qui la vittoria uno-contro-tutti di Trump. “Gli operai del Midwest che avevano votato per due volte Barack Obama, e nel novembre 2016 preferirono Trump a Hillary Clinton – scrive Marfè – non erano degli idioti o dei razzisti, come spesso li descriveva una sinistra radical chic. Votavano così perché guidati da una visione dei propri interessi economici, oltre che da una certa idea dell’America”.

Questa analisi già era stata condivisa dagli osservatori più lucidi della vicenda americana, Marfè fa un passo avanti e pone a se stesso due quesiti:

  1. Trump è stato conseguente rispetto alle sue promesse?
  2. In che condizioni arriva alla meta del suo (forse primo) quadriennio in un finale al cardiopalmo che si intreccia con lo tsunami sanitario del virus cinese?

Riguardo alla prima domanda l’autore risponde che “a Trump bisogna riconoscere come minimo un merito: ha mantenuto, o si è sforzato di mantenere, quasi tutte le sue promesse…Ha affrontato la Cina con durezza per riequilibrare un rapporto economico bilaterale che era insostenibile. C’è riuscito solo in minima parte, anche perché non ha mai saputo coalizzare con una strategia delle alleanze un fronte più ampio (Europa, Giappone, Corea del Sud); però, ha accelerato una presa di coscienza sulla minaccia cinese che va ben al di là della dimensione commerciale. Ha ridotto la pressione fiscale, soprattutto a vantaggio delle imprese, e per il primo triennio questo è stato probabilmente uno dei fattori per cui la crescita economica americana si è prolungata fino a una durata record”.

Interpellato riguardo alla sorpresa “horror-virale” di questo 2020 e alle sue ricadute sulle elezioni presidenziali Marfè ci dice: “Il coronavirus è un imprevisto colossale. Difficile dunque, mentre ci siamo ancora dentro, immaginarne le conseguenze. Una cosa è certa, però: l’America è a un bivio. Scegliere l’uomo forte, cui affidarsi e attorno al quale compattarsi in uno dei momenti più drammatici della propria storia. O scegliere qualcun altro, quasi chiunque altro. Persino quel Joe Biden che non spicca di certo per trasparenza, personalità e carisma. Ma c’è da tenere conto di un aspetto fondamentale: l’esposizione mediatica. Le presidenziali statunitensi si vincono anche e soprattutto così. Stando ovunque. E ovunque, almeno per il momento, ma io personalmente prevedo sempre un po’ di più proprio grazie a questa emergenza, c’è Trump. Con il suo rivale quasi a fare da sfondo a una sfida che, in realtà, The Donald si gioca più con o meglio contro se stesso. Contro i suoi strafalcioni, con le sue mosse elettorali. Spesso etichettate come ridicole e invece azzeccatissime”.

Peraltro, “Yes, We Trump” è anche un libro sul competitor Biden, descritto come politico prudente, un “centrista” in base alle coordinate delle scelte sostanziali, nonostante ora sia obbligato a corteggiare anche gli idealismi degli affezionati di Sanders: un uomo, Biden, che per quanto sia quasi coetaneo di Donald sembra emanare una impressione di “senilità”, dato anagrafico che si presta alla duplice interpretazione della maggiore accortezza o della minore energia.

Nelle scorse elezioni Trump conseguì il suo successo nella lotta contro l’establishment. Quell’establishment di cui Biden era figura di secondo piano e al quale oggi ancor più di ieri si imputa di aver aperto all’elefante cinese le porte della cristalleria del mercato globale e del mercato interno americano.

In epoca di coronavirus questa connessione potrebbe essere giocata come carta vincente dall’uomo che siede sulla poltrona più importante del pianeta, ma che ancora una volta si caratterizza come il Donald che mangia gli hamburgher nelle pause di lavoro e che guida la protesta contro le sofisticazioni dei club esclusivi delle oligarchie venali.

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