MediaTwitter Files: la censura social

Musk, Twitter e cosa le élite occidentali intendono oggi per libertà di parola

Progressisti nel panico: tesi paradossali per giustificare la censura. Per Musk si prospetta il “trattamento Zuckerberg”, per portarlo dal “Lato Giusto della Storia”

Media / Twitter Files: la censura social

Confermando la sua natura guascona ieri Elon Musk ha fatto ingresso nel quartier generale di Twitter, a San Francisco, reggendo un lavandino di porcellana, verosimilmente solo per il gusto di poter fare la battuta: “I’m entering twitter HQ, let that sink in”, che gioca sul doppio significato di “sink” (lavandino), e “sink in”, (assorbire). La frase idiomatica “let that sink in” significa all’incirca abituarsi mentalmente a qualcosa.

Il miliardario di origine sudafricana acquisisce il gigante dei social media per 44 miliardi di dollari dopo una lunga serie di polemiche e peripezie legali. “La ragione per cui ho acquistato Twitter è che è importante per il futuro della civilizzazione avere una piazza digitale pubblica, dove le idee possano essere discusse in maniera sana, senza ricorso alla violenza”, ha spiegato Musk.

Dopo aver ventilato l’ipotesi di licenziare il 75 per cento degli impiegati di Twitter, Musk ha fatto parziale marcia indietro, e ha voluto rassicurare gli inserzionisti dichiarando che saranno mantenute salvaguardie sulla moderazione dei contenuti. Ha tuttavia messo alla porta Parag Agrawal, Ned Segal e Vijaya Gadde, i tre principali artefici di Twitter così some l’abbiamo conosciuto negli ultimi dieci anni.

Musk sembra avere per la piattaforma grandi progetti: aumentare i profitti, migliorare la visibilità delle inserzioni mirate, eliminare i bots, portare gli utenti ad “almeno un miliardo”, monetizzazione, rafforzamento di Twitter blue, il servizio a sottoscrizione che offre extra peculiarità, e infine procedere verso una fusione con la sua futura X-, “l’app di tutto”, che consentirà anche pagamenti online, video hosting, e messaggistica istantanea.

Progressisti nel panico

Con tutti questi propositi, è significativo che l’allarme, per non usare la parola “panico”, generato dall’acquisizione di Twitter da parte di Musk provenga principalmente dal suo proposito di rivedere le regole della censura, il che ci porta a considerazioni sulla natura dei social media e sulla concezione attuale di libertà in Occidente.

Internet, i media, e il mondo politico progressista sembrano essere in preda a un vero e proprio tracollo nervoso di fronte alla prospettiva dell’imprevedibile Musk a capo di una delle maggiori piattaforme di social media. Il che offre una splendida finestra su cosa le élite occidentali sembrano intendere oggi per “libertà di parola”.

Il professore di giornalismo Jeff Jarvis ha twittato: “Oggi a Twitter è come l’ultima serata in un night club berlinese al tramonto della Repubblica di Weimar”. Un internet in cui le informazioni circolano in maniera non controllata sarebbe perciò il preludio alla fine della democrazia, e ad un ritorno della dittatura in Occidente.

“Gridare al fuoco in un teatro affollato”

Un sentimento a cui fa eco The New Republic, che pubblica un articolo a firma Brynn Tannehill intitolato: “Perché l’idea di libertà di parola di Elon Musk contribuirà a rovinare l’America”. Sottotitolo: “I contenuti di Twitter senza moderazione, e con Donald Trump e altri reinvitati, significano che le menzogne e la disinformazione sommergeranno la verità e i fascisti prenderanno il potere”.

L’argomento di Tannehill è che la “disinformazione” è pericolosa per il pubblico e per la democrazia. Le cattive idee non si combattono con le buone idee, come vuole l’adagio, ma con la censura. Le democrazie, sostiene Tannehill, riconoscono che “non si è liberi di urlare al fuoco in un teatro affollato”.

In realtà, l’esempio del “gridare al fuoco in un teatro affollato” viene dalla giustificazione del giudice della Corte Suprema americana Oliver Wendell Holmes nella sentenza Schenck vs. The United States del 1919, che giustificò il proibire ai pacifisti di distribuire volantini contro la leva obbligatoria. Questa è riconosciuta come una delle peggiori decisioni della Corte Suprema, ed è stata nullificata da numerose successive sentenze nel corso degli ultimi cento anni.

L’argomento classico a favore della libertà, di espressione o generale, in Occidente è che i danni che la libertà può fare sono niente in confronto ai benefici. E comunque inferiori ai danni che può fare l’assenza di libertà. Non solo questo viene ora rimesso in discussione da articoli come quello di Tannehill, ma si passa a sostenere che è la libertà stessa a portare alla dittatura.

Troppa libertà di parola

Sullo stesso tono Suzanne Nossel, autrice di “Dare to Speak: Defending Free Speech for All”, un libro che sostiene di voler trovare un equilibrio tra political correctness e cancel culture, la quale in un pezzo autenticamente orwelliano apparso sul Los Angeles Times (Titolo: “Come i piani di Elon Musk per Twitter possono minacciare la libertà di parola”), asserisce che la “disinformazione” rovina la libertà di parola perché la troppa varietà di informazioni e opinioni rende troppo difficile sapere qual è la verità, e la gente diventa troppo difficile da persuadere per la politica.

Cioè troppa libertà di parola uccide la libertà di parola, perciò non dovrebbe esserci libertà di parola.

Questo non significa che il governo debba intervenire e censurare l’informazione, dice Suzanne Nossel, anche perché negli Stati Uniti c’è quel fastidioso Primo Emendamento della Costituzione, ma le compagnie di media e social media, essendo private possono, e dovrebbero, invece fare il lavoro sporco, aggirando tutti i problemi di diritto e di diritti.

Ma cos’è la disinformazione?

Non si considera qui, a quanto pare, l’annoso problema di decidere cosa è informazione e cosa è disinformazione. La libertà di parola esiste appunto perché nessuno possa decidere arbitrariamente cos’è l’una o l’altra.

Il che ci porta ad un problema chiave, perché è impossibile non notare che tutti gli esempi di “disinformazione” portati da questi articoli pendono politicamente interamente a sinistra.

Sia nell’articolo del New Republic, sia in quello del Los Angeles Times, gli esempi di cosa starebbe uccidendo la democrazia sono essenzialmente una lunga litania di lamentele progressiste e luoghi comuni della politica di sinistra degli ultimi dieci anni.

Trump, Brexit, il 6 Gennaio, il terrorista di Christchurch e 4Chan, l’uso delle mascherine anti-Covid. A questi si aggiungono strani excursus nella storia alternativa, come l’idea di Tannehill che se il “Mein Kampf” fosse stato soppresso nella Repubblica di Weimar Hitler non avrebbe mai preso il potere.

Giustificare la censura

Su Twitter la dottoressa Lauren Hall-Lew (she/her), lo dice molto più chiaramente: “Libertà accademica e libertà di espressione sono politica del fischio del cane per silenziare decolonizzatori, anti-razzisti, trans-inclusionisti, e altre voci progressiste”.

In altre parole, la libertà è censura. E non solo. La libertà è in realtà propaganda di destra.

Ogni epoca usa per giustificare le limitazioni alla libertà gli strumenti che le sono culturalmente propri. Finora l’era postmoderna ha tentato di basare la censura internet sulle sensibilità individuali (“non c’è un diritto ad offendere”), e incrementalmente sulla “inclusione”, un termine in neolingua che ridefinisce la tolleranza stabilendo che alcune categorie di persone ne meritano di più di altre. Ora la estende alla preservazione della democrazia nella speranza che la parola magica faccia il trucco.

Si torna perciò al punto chiave: mettere limiti alla “libertà” dipende dalla definizione di libertà, e democrazia non è solo quando alle elezioni vince la parte politica “giusta”. Se non si è d’accordo sulle definizioni, si apre la porta all’arbitrio e all’illiberalità.

La censura dei social media

E qui casca l’asino, perché l’elefante nella stanza, la cosa di cui nessuno vuole veramente parlare, è la sperequazione nella censura e nella diffusione delle informazioni operate dalle grandi piattaforme di social media, che penda decisamente dalla parte dell’establishment politico, e il più delle volte a sinistra anche se, come detto in passato, viviamo nella Zangola e le etichette ideologiche sono oggi più labili.

Nel corso degli ultimi anni Twitter e altre piattaforme di social media non si sono limitate a bannare chi diceva cose spiacevoli, hanno invece fatto censura attiva e mirata, spesso con tempistiche ben precise ed estremamente sospette, operando talvolta in coordinazione con i governi.

Durante l’epidemia di Covid-19 si sono fatti arbitri della “scienza”, sospendendo medici che dissentivano sulle politiche dei governi.

Si sono intromessi anche nelle elezioni, promuovendo storie favorevoli a un candidato e sopprimendo quelle sfavorevoli, come la famosa storia del laptop di Hunter Biden. Anche nascondendo gli account e post di determinati candidati, o addirittura sospendendoli o bannandoli nel mezzo della campagna elettorale.

Miliardari purché dal “lato giusto”

E questo è anche il perché, pur con un dovuto scettiscismo pessimista, la galassia politica dissidente sta applaudendo l’avvento del Maestro Jedi Elon, che si spera riporti l’equilibrio nella Forza.

Balaji Srinivasan nel suo apprezzabile The Network State fa notare che nel mondo postmoderno la autoaffermata missione dei media non è più informare il pubblico, come inteso nell’ideale di democrazia liberale, ma “portare ad un’azione del governo”. Al culmine dell’era mediatica analogica i media guidavano la politica più della politica i media, spesso con un interesse miliardario alle spalle.

Stranamente, l’atavico sospetto del mondo progressista occidentale verso il potere delle multinazionali e i miliardari non si estende al loro utilizzo politico e ideologico strumentale, almeno finché il miliardario proprietario rimane dal “lato giusto della storia”.

Fino all’avvento di internet, questo rapporto a due vie tra governo e media, con miliardari compiacenti a fare da intermediario, trovava relativamente facile filtrare le informazioni che voleva arrivassero al pubblico e quelle che non voleva gli arrivassero.

Era un mondo semplice, ma è finito con l’avvento dei social media. È assolutamente naturale pertanto che la pressione si sia spostata sui nuovi media e sui nuovi miliardari che li controllano.

Il trattamento Zuckerberg

Facebook e Mark Zuckerberg erano un miracolo tecnologico, sociale ed economico nel 2012, quando i metadati raccolti dalla piattaforma aiutarono la campagna di Obama a connettersi con potenziali elettori. Diventarono un pericolo per la democrazia dopo che all’attivismo MAGA su Facebook fu attribuita l’elezione di Donald Trump nel 2016.

Dopo anni di accuse e minacce, Zuckerberg ha fatto penitenza e riguadagnato il favori dell’establishment aiutando a “fortificare” l’elezione del 2020 su Facebook, pagando di tasca sua numerose dropboxes per schede elettorali in Stati chiave, e infine bannando a vita Donald Trump mentre era ancora presidente in carica.

È chiaro che a Elon Musk si prospetta un trattamento simile. Il New York Times l’ha appena marchiato come “un agente del caos geopolitico”. Eppure, riconosce la Grigia Signora, le sue aziende forniscono indubbiamente servizi preziosi al mondo intero.

Però lui è noto per avere opinioni spesso discordanti dal mainstream. Vedete, non basta generare miliardi di profitto, non basta avanzare il benessere dell’umanità intera, occorre essere dal “Lato Giusto della Storia”.

I media che avrebbero dovuto essere un check & balance per il potere governativo si sono trasformati, come molte altre istituzioni nel mondo occidentale, in una sorta di potere parastatale che viene trattato come un “turf”, un territorio conteso tra le gang della politica.

Donald Trump e Twitter

Essendo i progressisti culturalmente dominanti, controllano la fetta più vasta di territorio e vedono ogni sconfinamento come una minaccia e ogni nuovo territorio come una potenziale colonia. Dal che l’avvio, post 2016, della campagna per trasformare la giungla delle piattaforme social media nella familiare e fedele pagina degli editoriali del New York Times.

È significativa la lamentela più frequente nei confronti di Elon Musk e del suo acquisto di Twitter: “Riporterà Donald Trump!”

Per quanto esilaranti fossero i suoi tweet, la presenza di Donald Trump su Twitter è stato più un danno che un bene per la sua presidenza. Anche tra i suoi elettori la critica più comune era: “Vorrei la smettesse di twittare”.

Se io fossi Donald Trump e volessi candidarmi di nuovo alle presidenza, questa volta mi terrei ben lontano dai social media. Se fossi un suo avversario politico, chiederei a Elon Musk di farlo tornare subito.

Ma per l’establishment politico e culturale la messa al bando di figure dissenzienti dal mainstream, I James O’Keefe, i James Lindsay, gli Alex Jones, soprattutto se dissacranti, è il vero obiettivo. Sono vittorie simboliche. Un segnale che il mondo, il loro mondo, è in ordine. Trump è stata la preda più grossa, la grande balena bianca. Se tornasse, sarebbe un’indicazione che il “turf” non è al sicuro.

La “camera dell’eco”

Elon Musk dice di temere le cosiddette “camere dell’eco”, i social media ideologicamente schierati, e ha espresso la volontà di creare uno spazio il più neutrale possibile che possa accogliere tutti. Ma secondo alcuni, come ad esempio Tim Pool, ex enfant prodige di Vice News e uno dei pionieri dell’informazione digitale, è già troppo tardi.

Per sua vera natura la mediazione algoritmica dei contenuti visibili, necessaria al modello “pagato dalle inserzioni”, perché consente alle piattaforme di trovare modi di selezionare le informazioni che interessano di più all’utente in maniera da massimizzare il tempo di utilizzo, rende la camera dell’eco inevitabile anche quando l’algoritmo non è manipolato a fini politici.

La ricerca del profitto

Né il sacro profitto, che in teoria sarebbe tra i check & balances del sistema, ha mitigato il problema. Le compagnie del Big Tech hanno spesso scelto di perdere guadagni pur di restare sulla giusta linea politica e nelle grazie dell’establishment. Il principio di Michael Jordan per cui, “anche i Repubblicani comprano scarpe da ginnastica”, non sembra essere più in effetto.

Uno dei progetti di Musk per Twitter è proprio tornare a fare profitto. Twitter non rende. Ha da sempre un orribile P/E Ratio, che ha raggiunto vette di 168. C’è il forte sospetto che venga mantenuto in vita dai bots, il che rappresenterebbe una frode nei confronti degli investitori e degli inserzionisti.

Si sospetta che lo strano fenomeno, verificatosi subito dopo l’annuncio dell’acquisizione da parte di Musk, di account Twitter, di quelli dal “lato giusto della storia”, che perdevano migliaia di seguaci e di altri, quelli dal “lato sbagliato”, che li guadagnavano improvvisamente, fosse dovuto alle grandi pulizie di Pasqua che Twitter ha dovuto effettuare per cancellare le tracce prima che arrivasse il nuovo management.

Il che ci porta alla domanda finale: se i social media non sono in grado di distinguere tra informazione e disinformazione, non sono uno spazio neutrale aperto a tutti, e non fanno nemmeno profitto, a che servono?

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