I cardinali dicono che la scelta del nome, Leone XIV, sia dovuta ad un omaggio al predecessore autore della Rerum Novarum, l’enciclica che diede vita alla moderna Dottrina Sociale della Chiesa. È vero. Ed è sicuramente vero che dalla Loggia delle Benedizioni, appena eletto Papa, Robert Prevost ha urlato il suo messaggio per la pace e chiesto “sinodalità”, inoltre farà attenzione all’ambiente e ai migranti in perfetta continuità con Bergoglio. In fondo ne era un collaboratore, portato in Curia alla guida del potente dicastero per la scelta dei Vescovi. Eppure il Collegio dei Cardinali ha scelto un mediatore, come rivela Bisignani, anche grazie al via libera dell’ala più conservatrice guidata dal tradizionalista Leo Burke.
Sarà così? Difficile dirlo adesso. Eppure l’omelia di questa mattina dalla Cappella Sistina è apparsa un messaggio chiaro anche all’ala più conservatrice della Chiesa. Una decisa cesura rispetto a Francesco da cui, peraltro, non solo non ha ereditato il nome (Francesco II sarebbe stato sì un segnale potentissimo di continuità) ma neppure i simboli di “povertà” tanto decantati dai media occidentali: con Prevost è tornata la mozzetta rossa sopra l’abito talare bianco, insieme alla stola ricamata e alla croce pettorale d’oro. Quisquiglie? Non proprio, soprattutto a San Pietro dove i simboli contano eccome.
Ma torniamo all’omelia. Leone XIV ha preso spunto dal Vangelo di Matteo in cui Gesù chiede ai discepoli “la gente chi dice che io sia?“. Alla domanda esiste un’unica risposta corretta: non un profeta, non una brava persona, non un amico, ma “il Cristo, il Figlio del Dio vivente”. Una frase, pronunciata da Simon Pietro, che per Prevost “esprime in sintesi il patrimonio che da duemila anni la Chiesa, attraverso la successione apostolica, custodisce, approfondisce e trasmette”. Sembra poco, ma dice tantissimo. Ovvero rivela ciò che la Chiesa di Roma dovrebbe annunciare: che solo Cristo è “l’unico Salvatore e il rivelatore del volto del Padre”. Cioè: non è uno dei modi per pregare Dio, come si sente spesso affermare, anche in ambienti cattolici, in onore al dialogo interreligioso, ma “l’unico” modo per arrivare alla Salvezza.
Ed è un’omelia che ricorda più l’approccio dottrinale di Benedetto XVI che l’attività pastorale di Francesco. La Chiesa che Leone XIV sembra avere in mente non è quella che “segue” la realtà “in cui viviamo, con i suoi limiti e le sue potenzialità, le sue domande e le sue convinzioni”, ma che la guida. Non insomma “una Chiesa dentro lo spirito del tempo”, come Cazzullo raccontò Bergoglio, ma un “faro che illumina le notti del mondo”.
Prevost registra due modalità, oggi, di reagire a quella domanda di Gesù: la gente chi dice che io sia?. C’è la risposta “del mondo” che lo considera “una persona totalmente priva d’importanza, al massimo un personaggio curioso, che può suscitare meraviglia con il suo modo insolito di parlare e di agire”. E c’è la risposta “della gente comune” che dipinge Cristo come “un uomo retto, uno che ha coraggio, che parla bene e che dice cose giuste, come altri grandi profeti della storia di Israele”: queste persone lo seguono, “almeno finché possono farlo senza troppi rischi e inconvenienti” poi però lo considerano “solo un uomo, e perciò, nel momento del pericolo, durante la Passione, anch’essi lo abbandonano e se ne vanno, delusi”.
Leone XIV è convinto che questi due atteggiamenti siano tipici della società moderna e secolarizzata. “Anche oggi non sono pochi i contesti in cui la fede cristiana è ritenuta una cosa assurda, per persone deboli e poco intelligenti; contesti in cui ad essa si preferiscono altre sicurezze, come la tecnologia, il denaro, il successo, il potere, il piacere”. Sono luoghi in cui “la mancanza di fede porta spesso con sé drammi quali la perdita del senso della vita, l’oblio della misericordia, la violazione della dignità della persona nelle sue forme più drammatiche, la crisi della famiglia e tante altre ferite di cui la nostra società soffre e non poco”. Il riferimento, neppure troppo velato, sembra essere all’Occidente ormai scristianizzato. “Anche oggi non mancano poi i contesti in cui Gesù, pur apprezzato come uomo, è ridotto solamente a una specie di leader carismatico o di superuomo, e ciò non solo tra i non credenti, ma anche tra molti battezzati, che finiscono così col vivere, a questo livello, in un ateismo di fatto”.
Nell’omelia di Prevost non c’è alcun riferimento a Francesco. Eppure molti di quelli che ne criticavano il pontificato sostenevano che Bergoglio si rivolgesse più ai non credenti, attratti dalla figura “storica” di Gesù che a quella divina. Anche Ratzinger aveva denunciato il “nuovo ateismo” della società cristiana, così secolarizzata da scambiare il Nazareno per un semplice agitatore sociale. “Non deve nascere l’impressione – diceva Benedetto XVI – che la fede si esaurisca in una specie di moralismo politico. Il messaggio centrale di Dio, di Gesù Cristo, della salvezza temporale ed eterna deve nuovamente percepirsi di più, perché la Chiesa non è un’organizzazione per il miglioramento del mondo“. Cristo, conferma oggi Leone, non è solo quel profeta che ha predicato la pace sociale, la carità, l’aiuto del prossimo, ma il Figlio di Dio. E fa tutta la differenza del mondo.
Giuseppe De Lorenzo, 9 maggio 2025
A seguire il testo integrale
«Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt 16,16). Con queste parole Pietro, interrogato dal Maestro, assieme agli altri discepoli, circa la sua fede in Lui, esprime in sintesi il patrimonio che da duemila anni la Chiesa, attraverso la successione apostolica, custodisce, approfondisce e trasmette. Gesù è il Cristo, il Figlio del Dio vivente, cioè l’unico Salvatore e il rivelatore del volto del Padre.
In Lui Dio, per rendersi vicino e accessibile agli uomini, si è rivelato a noi negli occhi fiduciosi di un bambino, nella mente vivace di un giovane, nei lineamenti maturi di un uomo (cfr CONC. VAT. II, Cost. Past. Gaudium et spes, 22), fino ad apparire ai suoi, dopo la risurrezione, con il suo corpo glorioso. Ci ha mostrato così un modello di umanità santa che tutti possiamo imitare, insieme alla promessa di un destino eterno che invece supera ogni nostro limite e capacità.
Pietro, nella sua risposta, coglie tutte e due queste cose: il dono di Dio e il cammino da percorrere per lasciarsene trasformare, dimensioni inscindibili della salvezza, affidate alla Chiesa perché le annunci per il bene del genere umano. Affidate a noi, da Lui scelti prima che ci formassimo nel grembo materno (cfr Ger 1,5), rigenerati nell’acqua del Battesimo e, al di là dei nostri limiti e senza nostro merito, condotti qui e di qui inviati, perché il Vangelo sia annunciato ad ogni creatura (cfr Mc 16,15).
In particolare poi Dio, chiamandomi attraverso il vostro voto a succedere al Primo degli Apostoli, questo tesoro lo affida a me perché, col suo aiuto, ne sia fedele amministratore (cfr 1Cor 4,2) a favore di tutto il Corpo mistico della Chiesa; così che Essa sia sempre più città posta sul monte (cfr Ap 21,10), arca di salvezza che naviga attraverso i flutti della storia, faro che illumina le notti del mondo. E ciò non tanto grazie alla magnificenza delle sue strutture o per la grandiosità delle sue costruzioni – come i monumenti in cui ci troviamo –, quanto attraverso la santità dei suoi membri, di quel «popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere ammirevoli di lui, che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua luce meravigliosa» (1Pt 2,9).
Tuttavia, a monte della conversazione in cui Pietro fa la sua professione di fede, c’è anche un’altra domanda: «La gente – chiede Gesù –, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?» (Mt 16,13). Non è una questione banale, anzi riguarda un aspetto importante del nostro ministero: la realtà in cui viviamo, con i suoi limiti e le sue potenzialità, le sue domande e le sue convinzioni. «La gente chi dice che sia il Figlio dell’uomo?» (Mt 16,13). Pensando alla scena su cui stiamo riflettendo, potremmo trovare a questa domanda due possibili risposte, che delineano altrettanti atteggiamenti.
C’è prima di tutto la risposta del mondo. Matteo sottolinea che la conversazione fra Gesù e i suoi circa la sua identità avviene nella bellissima cittadina di Cesarea di Filippo, ricca di palazzi lussuosi, incastonata in uno scenario naturale incantevole, alle falde dell’Hermon, ma anche sede di circoli di potere crudeli e teatro di tradimenti e di infedeltà. Questa immagine ci parla di un mondo che considera Gesù una persona totalmente priva d’importanza, al massimo un personaggio curioso, che può suscitare meraviglia con il suo modo insolito di parlare e di agire. E così, quando la sua presenza diventerà fastidiosa per le istanze di onestà e le esigenze morali che richiama, questo “mondo” non esiterà a respingerlo e a eliminarlo.
C’è poi l’altra possibile risposta alla domanda di Gesù: quella della gente comune. Per loro il Nazareno non è un “ciarlatano”: è un uomo retto, uno che ha coraggio, che parla bene e che dice cose giuste, come altri grandi profeti della storia di Israele. Per questo lo seguono, almeno finché possono farlo senza troppi rischi e inconvenienti. Però lo considerano solo un uomo, e perciò, nel momento del pericolo, durante la Passione, anch’essi lo abbandonano e se ne vanno, delusi. Colpisce, di questi due atteggiamenti, la loro attualità. Essi incarnano infatti idee che potremmo ritrovare facilmente – magari espresse con un linguaggio diverso, ma identiche nella sostanza – sulla bocca di molti uomini e donne del nostro tempo.
Anche oggi non sono pochi i contesti in cui la fede cristiana è ritenuta una cosa assurda, per persone deboli e poco intelligenti; contesti in cui ad essa si preferiscono altre sicurezze, come la tecnologia, il denaro, il successo, il potere, il piacere. Si tratta di ambienti in cui non è facile testimoniare e annunciare il Vangelo e dove chi crede è deriso, osteggiato, disprezzato, o al massimo sopportato e compatito. Eppure, proprio per questo, sono luoghi in cui urge la missione, perché la mancanza di fede porta spesso con sé drammi quali la perdita del senso della vita, l’oblio della misericordia, la violazione della dignità della persona nelle sue forme più drammatiche, la crisi della famiglia e tante altre ferite di cui la nostra società soffre e non poco.
Anche oggi non mancano poi i contesti in cui Gesù, pur apprezzato come uomo, è ridotto solamente a una specie di leader carismatico o di superuomo, e ciò non solo tra i non credenti, ma anche tra molti battezzati, che finiscono così col vivere, a questo livello, in un ateismo di fatto.
Questo è il mondo che ci è affidato, nel quale, come tante volte ci ha insegnato Papa Francesco, siamo chiamati a testimoniare la fede gioiosa in Gesù Salvatore. Perciò, anche per noi, è essenziale ripetere: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt 16,16). È essenziale farlo prima di tutto nel nostro rapporto personale con Lui, nell’impegno di un quotidiano cammino di conversione. Ma poi anche, come Chiesa, vivendo insieme la nostra appartenenza al Signore e portandone a tutti la Buona Notizia (cfr CONC. VAT. II, Cost. Dogm. Lumen gentium, 1).
Dico questo prima di tutto per me, come Successore di Pietro, mentre inizio la mia missione di Vescovo della Chiesa che è in Roma, chiamata a presiedere nella carità la Chiesa universale, secondo la celebre espressione di Sant’Ignazio di Antiochia (cfr Lettera ai Romani, Saluto). Egli, condotto in catene verso questa città, luogo del suo imminente sacrificio, scriveva ai cristiani che vi si trovavano: «Allora sarò veramente discepolo di Gesù Cristo, quando il mondo non vedrà il mio corpo» (Lettera ai Romani, IV, 1).
Si riferiva all’essere divorato dalle belve nel circo – e così avvenne –, ma le sue parole richiamano in senso più generale un impegno irrinunciabile per chiunque nella Chiesa eserciti un ministero di autorità: sparire perché rimanga Cristo, farsi piccolo perché Lui sia conosciuto e glorificato (cfr Gv 3,30), spendersi fino in fondo perché a nessuno manchi l’opportunità di conoscerlo e amarlo. Dio mi dia questa grazia, oggi e sempre, con l’aiuto della tenerissima intercessione di Maria Madre della Chiesa.
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