Economia

Casa green, casa green, per piccina che tu sia, tu mi costi una follia

Ecco il conto salatissimo della folle direttiva “case green”, in cambio di nessun beneficio per il clima del pianeta. Lo spettro del “passaporto energetico” degli immobili

case green europa © MiroNovak, vencavolrab e alexsl tramite Canva.com

Tutti noi ricorderemo la IX legislatura del Parlamento europeo, quella che si chiuderà entro poche settimane, come quella che ha approvato in extremis la cosiddetta “direttiva case green”, specchio fedele della cifra politica di tutta la legislazione, l’ultimo colpo di coda del Parlamento più ideologizzato degli ultimi trent’anni, quello che ha elevato a verità non suscettibile di discussione il credo antiscientifico della teoria del cambiamento climatico causato dalle emissioni di CO2 di origine antropica, improntando l’intera azione legislativa a politiche dirigiste volte alla riduzione di quelle emissioni.

Politiche che non solo non stanno sortendo gli effetti desiderati – a fronte di una loro modesta riduzione in Ue, infatti, si registra un significativo incremento in Estremo Oriente secondo il principio empirico di conservazione delle emissioni di CO2 a parità di livello di benessere e di numero di individui che vi hanno accesso – ma stanno portando l’Ue alla desertificazione industriale e ad un inesorabile declino economico.

La direttiva

Certo, la versione finale della direttiva approvata dal Parlamento europeo è più mite della sua khomeynistica formulazione iniziale, e certo, l’iter adesso prevede un lasso di tempo di due anni per il recepimento della direttiva da parte delle legislazioni degli Stati membri durante il quale i parlamenti nazionali avranno una certa libertà d’azione per modifiche e adattamenti alle situazioni locali.

Tuttavia, la spada di Damocle è comunque lì, pendente sul capo di milioni di cittadini Ue, italiani in particolare. Perché soprattutto su di noi? Perché l’Italia è un unicum architettonico che non ha eguali in Ue – checché ne dicano i tristi figuri nordeuropei che non sono in grado di comprendere la grande bellezza italiana e si arrogano il diritto di pontificare sui nostri destini – e il nostro è quindi il Paese che rischia di pagare il conto più salato a causa di questa folle direttiva.

Ma procediamo con ordine, come sempre, e vediamo insieme innanzitutto qual è la logica sottesa dalla direttiva e cosa essa prevede in dettaglio; dopodiché, ci faremo due conti della serva per fare una stima del costo presunto di adeguamento di un immobile di medie dimensioni. Non me ne vogliano i lettori che abitano in ville mono- o bifamiliari ma, poiché più dell’80% degli italiani vive in edifici condominiali, prenderemo in esame un immobile inserito proprio in un contesto di questo tipo.

Le motivazioni

L’obiettivo della direttiva case green, tecnicamente la “Energy Performance of Building Directive” (Epbd), è, come detto, il perseguimento della riduzione delle emissioni di CO2 fino al loro azzeramento entro il 2050 anche nel settore immobiliare. Azzeramento che passa attraverso la riqualificazione del patrimonio edilizio europeo e il miglioramento dell’efficienza energetica delle abitazioni. La maggiore efficienza energetica dovrebbe far risparmiare energia a parità di benessere domestico, il che dovrebbe quindi portare alla necessità di bruciare meno combustibili fossili e, in definitiva, a minori emissioni di CO2 in atmosfera.

Detto che risparmiare energia nelle azioni quotidiane è una regola di buon senso che si dovrebbe sempre seguire a beneficio innanzitutto del proprio portafoglio, cionondimeno, come vedete, questo provvedimento poggia su premesse che sono ben lungi dall’essere state finora nemmeno lontanamente scientificamente dimostrate, il cui impatto sul clima ha la stessa valenza della danza della pioggia che le popolazioni primitive praticavano nei periodi di siccità per propiziarsi le divinità.

I numeri delle emissioni di CO2

Per meglio comprendere le dimensioni del fenomeno, giova ricordare che le emissioni globali di CO2 di origine antropica rappresentano circa il 5 per cento del totale degli scambi gassosi di CO2 nel pianeta che si rimpallano l’atmosfera, gli oceani e le terre emerse (37,15 contro 750 Gt/anno circa). L’Ue contribuisce ad esse per l’8,3 per cento circa (3,08 contro 37,15 Gt/anno), cioè per lo 0,4 percento del totale degli scambi gassosi di CO2 del pianeta (l’Italia pesa per lo 0,045 per cento). Inoltre, studi specifici imputano alle abitazioni il 10 per cento circa del totale delle emissioni di CO2 di origine antropica. Ciò vuol dire che, in definitiva, le abitazioni Ue incidono per lo 0,04 per cento degli scambi gassosi totali di CO2 del pianeta.

Pertanto, ammesso e non concesso che esista per assurdo una relazione di causa-effetto tra aumento della concentrazione di CO2 in atmosfera e conseguente aumento della temperatura media globale, le case Ue contribuirebbero a tale aumento per lo 0,04 per cento. Poiché i clima-catastrofisti temono che la catastrofe appunto arriverà con un incremento di +3 °C rispetto alla temperatura ritenuta da loro arbitrariamente quella “giusta”, cioè quella che si ebbe nella seconda metà dell’Ottocento subito dopo l’ultima piccola era glaciale, le case Ue starebbero contribuendo a tale innalzamento per 1,2 millesimi di °C. Per la cronaca, pare che la temperatura del pianeta sia già cresciuta di +2 °C rispetto a quella temperatura arbitraria di riferimento ma, come vedete, siamo ancora tutti qua…

La questione non cambia di molto persino se accettassimo supinamente, per assurdo, la narrazione dei clima-catastrofisti secondo la quale solo la quota delle emissioni di CO2 di origine antropica – non si sa bene per quale bizzarria fisica – sarebbe l’unica responsabile del riscaldamento globale. In tal caso, le abitazioni Ue sarebbero responsabili dello 0,83 percento del totale delle emissioni di CO2 di origine antropica e, quindi, il loro contributo al riscaldamento globale sarebbe di 2,5 centesimi di °C.

In ogni caso, 1,2 millesimi o 2,5 centesimi di °C che dir si voglia, questi numeri infinitesimali parlano da soli e dimostrano la completa inutilità della direttiva case green per i fini dichiarati di contenimento del riscaldamento globale, persino ammettendo in toto, per assurdo, la veridicità della teoria del riscaldamento globale causato dalle emissioni di CO2 di origine antropica. Ma, come dicono i più maliziosi tra di voi, se non serve per lo scopo dichiarato evidentemente serve per qualcos’altro…

Cosa prevede la direttiva

Dopo aver dimostrato, numeri alla mano, l’inutilità della direttiva Epbd – questa sigla ci perseguiterà per anni, sicché meglio cominciare ad abituarci ad essa fin da subito – per i fini dichiarati, vediamo adesso in dettaglio cosa prevede.

Innanzitutto, la direttiva prescrive l’obbligo che tutti gli edifici di nuova costruzione debbano essere a emissioni zero di CO2 dal 2028 e 2030, a seconda se siano edifici pubblici o privati.

Quanto agli edifici esistenti, tralasciamo quelli pubblici e concentriamo la nostra attenzione su quelli residenziali. In tal caso, la direttiva prevede che il consumo medio di energia primaria per il complesso delle abitazioni residenziali debba ridursi del 16 per cento entro il 2030 e del 20-22 percento entro il 2035. Di questa, il 55 percento del risparmio energetico dovrà provenire mediante ristrutturazione degli edifici con le prestazioni peggiori. Infine, l’intero parco immobiliare nazionale dovrà diventare a emissioni zero di CO2 entro il 2050.

Faranno eccezione:

  • Gli edifici storici (tutto starà a vedere quali saranno le norme che verranno stabilite per classificare le abitazioni come tali).
  • I luoghi di culto e gli edifici destinati ad attività religiose.
  • Gli edifici indipendenti con superficie inferiore ai 50 m2.
  • Le case per vacanze estive e gli edifici residenziali usati per un periodo limitato e con un consumo energetico ridotto (anche in questo caso bisognerà vedere le norme applicative).
  • Gli edifici di proprietà delle Forze Armate e utilizzati a scopi di difesa.
  • I siti industriali, le officine e gli edifici agricoli non residenziali.

La direttiva prevede inoltre tappe forzate per l’installazione di impianti fotovoltaici sui tetti degli immobili. Questa è senza dubbio la parte più odiosa dell’intera direttiva, senza troppi giri di parole un chiaro favore fatto alle lobby del fotovoltaico. La scaletta attuativa sarà la seguente:

  • 2027: su tutti i nuovi edifici pubblici e non residenziali con una superficie coperta utile maggiore di 250 m2.
  • 2028: su tutti gli edifici pubblici e non residenziali esistenti con una superficie coperta utile maggiore di 2.000 m2.
  • 2029: su tutti gli edifici pubblici e non residenziali esistenti con una superficie maggiore di 750 m2.
  • 2030: su tutti i nuovi edifici residenziali e i parcheggi coperti accanto agli edifici.
  • 2031: su tutti gli edifici pubblici esistenti con superficie coperta utile maggiore di 250 m2.
  • 2050: su tutti gli edifici residenziali esistenti.

Quanto costerà adeguarsi

Diciamo subito che, essendo gli obiettivi di risparmio energetico della direttiva riferiti all’intero parco immobiliare, non è immediato oggi poter fare una stima puntuale dell’entità delle ristrutturazioni delle singole categorie di abitazioni, dal momento che tutto dipenderà da come questa regola generale verrà poi recepita dal nostro corpo legislativo e con quali modalità verranno statuiti i vari obblighi.

Quello che tuttavia possiamo dire fin da ora con certezza è che, in soldoni, la classe di efficienza energetica di tutti gli immobili residenziali che non fanno parte delle categorie esentate dovrà essere portata alla “E” entro il 2030 e alla “D” entro il 2033. Poiché il 15 per cento del patrimonio immobiliare residenziale italiano è oggi in classe “G” (la peggiore), ciò significa che entro nove anni occorrerà far fare un salto di tre classi energetiche in un colpo solo al 15 per cento degli immobili.

Ciò in quanto, trattandosi di tappe così ravvicinate, non avrebbe senso fare interventi selettivi parziali a distanza di soli tre anni gli uni dagli altri per rispettare di volta in volta pedissequamente le due scadenze del 2030 e del 2033 ma converrebbe piuttosto affrontare la questione in un’unica soluzione. Tradotto in termini spiccioli, ciò implica la necessità di ristrutturare gli immobili con una serie significativa di interventi:

  • Isolamento termico esterno dell’edificio con l’installazione di un sistema a “cappotto”.
  • Sostituzione degli infissi con porte e finestre a doppio o triplo vetro con isolamento dei cassonetti e delle tapparelle.
  • Sostituzione degli impianti di riscaldamento esistenti con pompe di calore.
  • Installazione di impianti fotovoltaici sui lastrici solari.

Un esempio pratico

Subito dopo l’approvazione della direttiva Epbd, sui principali quotidiani nazionali si sono cominciate a rincorrere le cifre più disparate elative agli importi necessari per le ristrutturazioni edilizie in questione: c’era chi minimizzava dicendo che sarebbero stati sufficienti mediamente 30.000 euro ad immobile per gli adeguamenti richiesti dalla direttiva, chi parlava di 50.000 euro, chi, come il Centro Studi Cresme, addirittura di 320 miliardi di euro per 3,2 milioni di immobili, cioè 100.000 euro medi a immobile.

Potevamo mai noi esimerci dal cimentarci nello stesso esercizio? Ovviamente no! E allora, proviamo a farci insieme due conti della serva su quello che potrebbe essere oggi un importo realistico per l’esecuzione dei lavori di ristrutturazione di cui sopra.

Per far questo, prendiamo in esame uno stabile come ce ne sono tanti in Italia, un edificio di 5 piani avente una pianta di 450 m2 e 4 appartamenti per piano per un totale di 20 appartamenti. L’altezza di ciascun piano è 3 metri. Il lastrico solare ha una superficie utile di 420 m2.

All’interno di questo stabile, consideriamo un appartamento di 100 m2 commerciali a pianta rettangolare 12,6 x 7,8 metri (la forma del rettangolo perfetto secondo gli antichi greci), con le facciate maggiore e minore esposte all’esterno per una superficie totale di (12,6 + 7,8) x 3 = 61,2 m2. Le due facciate sono dotate di 2 balconi identici, ciascuno di dimensioni 4 x 1,5 metri. Supponiamo inoltre che l’abitazione abbia 4 finestre 1,20 x 1,30 metri ciascuna e 2 portefinestre 1,84 x 2,15 metri ciascuna, per una superficie totale di infissi pari a circa 14 m2. Supponiamo infine che l’appartamento sia dotato di impianto autonomo di riscaldamento mediante caldaia a gas e termosifoni in ghisa disposti nelle varie stanze.

1. Cappotto termico esterno

La superficie utile da considerare sarà quella totale esposta meno quella degli infissi, cioè 61,2 – 14 = 47,2 m2, oltre alla copertura dei balconi per evitare i ponti termici: 2 x 2 x 4 x 1,5 = 24 m2. A questi vanno sommate poi le parti comuni dell’edificio che, per semplicità, supporremo essere costituite solo dalla copertura del terrazzo, diviso per semplicità in 20 parti uguali, tante quanti sono gli immobili condominiali. Sicché, ulteriori 450/20 = 22,5 m2.

La fornitura di un cappotto termico dalle buone prestazioni e durabilità – per intenderci, non uno di quei “cappotti 110 per cento” che se ne volano alla prima raffica di vento! – vale oggi all’incirca 90 euro/m2 per le strutture perimetrali e 190 euro/m2 per le coperture, oltre agli accessori di rifinitura (scossaline, ecc.). La posa in opera vale invece circa 60 euro/m2. L’incidenza sull’appartamento dell’esempio sarà quindi (90 + 60) x 47,2 + (190 + 60) x (24 + 22,5) = 18.705 euro più gli accessori di rifinitura che possiamo con buona approssimazione ritenere che valgano ulteriori 2.000 euro, per un totale di circa 21.000 euro.

2. Sostituzione degli infissi

Per la sostituzione degli infissi preesistenti con gli ultimi ritrovati della tecnologia che consentono da soli di guadagnare fino a due classi energetiche, occorre prevedere un costo di fornitura di 900 euro/m2 e di posa di 90 euro/m2. Pertanto, il rifacimento degli infissi del nostro appartamento condominiale, con i suoi 14 m2, ci verrebbe a costare: (900 + 90) x 14 ≈ 14.000 euro. Detto tra noi, la sostituzione degli infissi è, delle quattro attività di ristrutturazione che abbiamo preso in esame, l’unica che abbia una reale e concreta utilità.

3. Impianto con pompa di calore

Delle pompe di calore abbiamo discusso diffusamente qualche settimana fa, mostrando pregi e difetti e, soprattutto, la loro sostanziale inefficacia oggi nella riduzione delle emissioni di CO2 rispetto alle caldaie tradizionali a gas. Tuttavia, in un’ipotetica prospettiva “net zero” in cui l’energia elettrica fosse prodotta al 100 per cento da fonti rinnovabili, anche le pompe di calore sarebbero di conseguenza 100 per cento “green”.

Ecco che, in questo scenario da Mulino Bianco, la sostituzione della caldaia a gas con una pompa di calore aria-acqua si renderebbe anch’essa necessaria. Tuttavia, questo comporterebbe al tempo stesso la necessità di sostituire anche gli elementi radianti. Ciò in quanto, in un sistema con pompa di calore, la temperatura di mandata dell’acqua calda non supera mai i 50 – 55 °C (ideale per gli impianti a pavimento), laddove invece una caldaia tradizionale a gas può sviluppare temperature di mandata dell’acqua fino ai 70 – 80 °C.

Di conseguenza, i termosifoni preesistenti diventano automaticamente inadeguati a garantire lo stesso livello di scambio termico e vanno pertanto sostituiti con elementi radianti più performanti dei termosifoni in ghisa, la cui superficie sia in rapporto inverso con il rapporto delle temperature di mandata dell’acqua, cioè 80 / 50 = 1,6. In altre parole, il numero di elementi radianti dev’essere il 60 per cento in più di quelli preesistenti. Supponendo che l’appartamento sia dotato di un totale di 150 elementi standard in ghisa 90 x 6 cm (ipotesi ragionevole per l’appartamento dell’esempio), occorrerà prevedere l’installazione di 240 nuovi elementi delle stesse dimensioni, il cui costo unitario oggi si aggira intorno ai 105 euro/cadauno, per un totale di circa 25.000 euro.

Quanto alla pompa di calore, un immobile di 100 m2 con soffitto di 3 m avrà un volume di 300 m3 da riscaldare. La regola empirica prevede l’installazione di una macchina che sia in grado di sviluppare una potenza termica nominale di 40 W/m3 che, nel nostro caso, porta a una taglia di 12 kW termici. Una pompa di calore da 12 kWth costa oggi all’incirca 9.000 euro.

Infine, per l’installazione dei nuovi elementi radianti e della pompa di calore, occorre mettere in conto una somma almeno pari a 5.000 euro. Il totale generale sarà quindi circa 39.000 euro.

4. Impianto fotovoltaico sul lastrico solare

Dulcis in fundo, la riqualificazione energetica dovrà includere anche l’impianto fotovoltaico sul tetto dell’edificio. Con una superficie utile di lastrico solare di 420 m2, tenendo conto di una percentuale di occupazione del 90 per cento, si possono installare 380 m2 di pannelli fotovoltaici al silicio monocristallino (42 kWp) che saranno in grado di produrre in media 76.000 kWh/anno di energia elettrica. Il costo della fornitura in opera dell’impianto fotovoltaico con batterie di accumulo da 50 kWh si aggira intorno agli 80.000 euro da suddividere per i 20 immobili condominiali, con un’incidenza per immobile di circa 4.000 euro.

Tiriamo le somme

Il totale delle ristrutturazioni ai fini della direttiva “case green” per un immobile di medie dimensioni in uno stabile condominiale sarà quindi: 21.000 + 14.000 + 39.000 + 4.000 = 78.000 euro.

Su vasta scala, tenendo conto dei 3,2 milioni di immobili oggetto dello studio del Cresme, il totale per gli adeguamenti degli immobili residenziali italiani ammonterebbe quindi a circa 250 miliardi di euro a fronte dei quali, ammessa e non concessa per assurdo la veridicità della teoria del riscaldamento globale causato dalle emissioni di CO2 di origine antropica, la riduzione della temperatura media del pianeta sarebbe di 3 millesimi di °C. In realtà, poiché questa teoria è ben lungi dall’essere mai stata nemmeno lontanamente scientificamente dimostrata, il complesso delle ristrutturazioni edilizie sarà del tutto ininfluente sul clima del pianeta. Contenti, vero?

E gli incentivi?

Allo stato attuale, gli incentivi esistenti non prevedono sconto in fattura ma un bonus del 70 per cento sotto forma di credito di imposta spalmato su 10 anni. Pertanto, l’importo di 78.000 euro dovrà essere erogato immediatamente, magari previa stipula di un mutuo ipotecario, e poi, per i dieci anni successivi, il proprietario avrà diritto a un credito di imposta pari al 7 per cento annuo del valore dell’investimento, cioè 5.460 euro/anno nel caso dell’esempio, sempre che egli abbia da pagare Irpef in eccedenza a quel credito per i dieci anni successivi; in caso contrario, parte del beneficio fiscale andrà in cavalleria, come si suol dire in linguaggio comune. A carico del proprietario resterà in ogni caso il 30 per cento dell’investimento, cioè 23.400 euro nel caso dell’esempio.

E se ce ne infischiamo degli adeguamenti?

La direttiva prevede esplicitamente che, in caso di inosservanza, gli Stati membri dovranno prevedere opportune sanzioni proporzionate alla “gravità” dei mancati adeguamenti, relativamente alle tappe di implementazione degli obiettivi prefissati. Tuttavia, non è possibile oggi poter dire con certezza quali saranno queste sanzioni, dal momento che le modalità e gli importi dovranno essere stabiliti dalle legislazioni nazionali nel momento in cui esse andranno a recepire la direttiva nel proprio corpo legislativo.

In ogni caso, ciò di cui si sente parlare da qualche mese con insistenza non è affatto confortante. Si parla infatti di “passaporto energetico di ristrutturazione”, un documento che dovrebbe accompagnare l’edificio nel suo percorso di efficientamento energetico e che i più oltranzisti vorrebbero che fosse ostativo per compravendite o locazioni dell’immobile, in perfetto stile dirigista. Altri parlano addirittura di pesanti sanzioni pecuniarie in caso di mancati adeguamenti.

Una cosa è certa: se i meccanismi perversi della Epbd dovessero davvero prender piede nei prossimi anni e il nuovo parlamento europeo che verrà eletto a giugno non porrà rimedio a questo scempio, sanzioni pecuniarie o non sanzioni pecuniarie, passaporto energetico o non passaporto energetico, un immobile che non venisse adeguato a questa folle direttiva vedrebbe il proprio valore di mercato crollare rovinosamente, distruggendo in un batter di ciglia decenni di sacrifici fatti per acquistare la casa dove vivere con la propria famiglia e da lasciare ai propri figli.

Conclusioni

Come abbiamo visto, di là dagli obiettivi pretestuosi dell’”ambiente” e della cosiddetta “transizione energetica”, obiettivi cui – c’è da giurarci – non credono nemmeno i fautori di questo delirio in salsa dirigista, la direttiva “case green” rappresenta quindi, incontrovertibilmente, un vero e proprio attacco alla piccola proprietà privata diffusa e, dal momento che l’Italia è lo Stato membro con la maggior percentuale di piccoli proprietari di casa, rappresenta chiaramente un attacco mirato proprio al risparmio privato e al patrimonio immobiliare italiani che evidentemente fanno gola ai grossi gruppi finanziari multinazionali.

È doveroso infine ricordare che questa folle direttiva è stata orchestrata con la complicità di ben determinate forze politiche italiane che hanno votato a favore della sua approvazione: Partito democratico, Movimento 5 Stelle, Verdi e Sinistra, Italia Viva e Sudtiroler Volkspartei. Ecco, alle prossime elezioni di giugno adesso avrete un quadro più nitido di chi in Europa lavora, più o meno a sua insaputa, ai danni del Paese.

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