Economia

Dalla società del lavoro alla società del tempo libero

Il “secolo del tempo libero”: sempre più le nuove generazioni declassano il lavoro a mero strumento di reddito e non di realizzazione personale

lavoro

Un sociologo di razza, Aris Accornero, da poco scomparso, ebbe a battezzare il secolo scorso come “il secolo del lavoro”, per sottolinearne la centralità che “l’etica del lavoro” vi aveva rivestito, nel nostro Paese come d’altronde nell’Occidente tutto. Si può dire lo stesso per il secolo presente, oppure c’è più di un segno che questo sarà “il secolo del tempo libero”.

Certo, la battaglia per la riduzione dell’orario lavorativo ha caratterizzato il movimento sindacale dai suoi albori, tutt’ora viva, se pur coperta nella ricerca di flessibilità, realizzata anche tramite la digitalizzazione, sì da adeguarlo al tempo di vita. Ma questo non toglie che l’etica del lavoro prevalente, alla base di tutta la normativa protettiva, considerava il lavoro come l’estrinsecazione della persona che lo prestava, sì da dare per scontata come meta finale la soddisfazione derivante dal posto di lavoro ricoperto.

Lavoro subìto

A mettere in dubbio questa rappresentazione è sempre stata la realtà, per una consistente maggioranza, di un lavoro subìto e non partecipato, perché povero se non addirittura sprovvisto di professionalità, un prolungarsi della condanna biblica inflitta a Adamo, come punizione per lui e per tutti i suoi discendenti, di guadagnarsi il pane col sudore della fronte, che neppure il sacrificio del Dio fatto uomo aveva cancellato. D’altronde, non sembrava esserci alternativa d’innanzi alla perenne sfasatura fra domanda e offerta del lavoro, che ha mantenuta bassa la percentuale della popolazione attiva, specie quella femminile, e alta la percentuale della disoccupazione, specie quella giovanile.

Se è risalente la difficoltà di far fronte alla domanda di lavoro per le attività industriali più faticose ed esposte, per le attività agricole di raccolta, per le attività di assistenza, tanto da essere assunta a giustificazione di una immigrazione “economica”, non selezionata e filtrata, non altrettanto si può dire di una resistenza manifestata nelle ultime generazioni a rispondere ad una domanda di lavoro anche qualificata; nonché a considerare sia l’entità della retribuzione, sia la sicurezza offerta da contratti a tempo indeterminato come determinanti.

Il fattore tempo

Così, le interviste fatte a datori di lavoro rivelano che a contare è soprattutto il tempo di lavoro, che dovrebbe escludere del tutto i weekend e mantenere elastico l’orario settimanale; così ancora le statistiche ci dicono che più di metà delle cessazioni di rapporti di lavoro a tempo indeterminato è dovuta a dimissioni.

È facile immaginare che cosa ci sia dietro, cioè una valorizzazione del tempo libero, che declassa il lavoro a mero strumento di reddito, necessario quando non ci sia altro modo di mantenersi, mentre il tempo extra lavorativo è spendibile proprio per il tentativo di realizzarsi altrimenti, sfruttando tutte le occasioni offerte da una società digitalizzata.

Certo queste generazioni corrono il rischio di fare una scelta sbagliata, ma esse molto più che in passato vivono nel presente, a fronte del moltiplicarsi delle incertezze riguardo al futuro, che appare sempre più di difficile controllo, sì da risultare attuali le rime di Lorenzo il Magnifico, “Chi vuol essere lieto, sia, di doman non c’è certezza”.

Giocano in tal senso due fattori. Anzitutto la straordinaria ricchezza dell’offerta per occupare il tempo libero, niente di paragonabile con quella della mia giovinezza, nonché la sua sostenibilità in termini di costo; poi la possibilità di contare sul mantenimento assicuratogli ancora principalmente dalla famiglia originaria, dall’assistenza pubblica, dai lavoretti della gig economy.

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