Economia

Emissioni zero? Un altro sogno green che può avverarsi solo come incubo

Conti alla mano, ecco cosa comporterebbe in concreto per l’Italia. Obiettivo “net zero” irrealizzabile, a meno che il vero piano non sia un deserto deindustrializzato

Timmermans Green Deal

Tutti voi avrete sentito parlare dell’obiettivo “net zero” che, da qui al 2050, l’Ue vuole imporre a tutti gli Stati membri. Cosa significa “net zero”? Secondo la definizione data dalle Nazioni Unite, il termine “net zero” indica l’azzeramento di tutte le emissioni di gas serra provenienti da attività antropiche, cioè prodotte dall’uomo. Sempre secondo le Nazioni Unite, raggiungere lo “zero netto” entro il 2050 significherebbe contenere l’aumento del riscaldamento globale entro +1,5 °C, limite oltre il quale il cambiamento climatico minaccerebbe di rendere invivibili alcune parti del pianeta.

Saltiamo a piè pari la discussione sull’effettiva utilità di questo intento e sulla veridicità delle affermazioni delle Nazioni Unite; ci limitiamo solo a ricordare che buona parte della comunità scientifica non concorda affatto con quelle conclusioni, checché ne dicano i cosiddetti “divulgatori scientifici” e “fact-checkers” all’amatriciana de noantri.

Viceversa, accettiamo pure il guanto di sfida e vediamo cosa significherebbe in concreto per l’Italia implementare rigorosamente le politiche “net zero” facendoci due conti della serva sulle modifiche che dovremmo apportare alla configurazione del nostro sistema tecnologico, a parità di tenore di vita attuale, per fare anche noi la nostra parte in questo folle volo, come direbbe l’Ulisse dantesco.

Quanto consumiamo oggi

Prima di cominciare, è bene fissare le idee sul consumo medio annuo attuale di energia elettrica in Italia: occorre sapere infatti che nel 2022 esso è stato pari a 317 TWh che, per chi non avesse molta dimestichezza con le conversioni tra unità di misura dell’energia, corrispondono a 317 miliardi di kWh. Ma, vi chiederete, perché siamo partiti dal consumo di energia elettrica? Lo capirete molto presto!

Ovviamente, condicio sine qua non per realizzare l’obiettivo “net zero” è abbandonare del tutto il consumo di combustibili fossili e di idrocarburi in generale, che è tuttavia condizione necessaria ma non sufficiente. Oltre a quello, dovremmo infatti analizzare anche, ad esempio, l’azzeramento degli allevamenti, l’azzeramento dell’utilizzo dei fertilizzanti chimici, l’azzeramento della produzione delle plastiche (anch’esse tutte di derivazione dagli idrocarburi), ecc.

Tuttavia, per semplicità di esposizione, focalizziamo la nostra attenzione solo sulla trasformazione profonda del sistema di produzione e consumo di energia che si renderebbe necessaria a seguito dell’abbandono dei combustibili fossili e del passaggio all’utilizzo di energia proveniente interamente da fonti rinnovabili.

In attesa della possibile nascita e affermazione di tecnologie innovative di cui però oggi non vi è traccia, l’energia dovrebbe necessariamente provenire dalle tecnologie consolidate – idroelettrico, eolico, fotovoltaico e biomasse – o, al limite, attraverso la loro intermediazione mediante vettori energetici, primo tra tutti il cosiddetto “idrogeno verde” ma anche, ad esempio, la cosiddetta “e-fuel” alias “benzina sintetica”.

Modifiche strutturali degli utilizzatori

In tutta evidenza, quindi, gli utilizzatori finali dovranno adattarsi a consumare solo ed esclusivamente energia rinnovabile. Cominciamo quindi la nostra analisi proprio da questi ultimi ed esaminiamo le tre principali tipologie di consumo in modo da calcolare una stima del futuro fabbisogno di energia elettrica e di materie prime critiche.

(1) Mobilità. Fatte salve soluzioni di nicchia legate all’uso di combustibili rinnovabili – idrogeno verde, e-fuel – di entità tuttavia ancora del tutto trascurabile, affinché l’intero parco semovente italiano (auto, camion, bus, moto, ecc.) si muova nella direzione del consumo di energia rinnovabile, occorrerebbe che esso si converta integralmente alla trazione elettrica. Sotto tale ipotesi, occorrerebbero all’incirca ulteriori 175 TWh/anno di energia elettrica in sostituzione dei carburanti fossili. Questo dato può desumersi in maniera piuttosto semplice attraverso le seguenti considerazioni energetiche (rif. dati Istat consumi 2021):

  • In Italia si consumano annualmente circa 7 milioni di tonnellate di benzina e 23 milioni di tonnellate di gasolio per autotrazione.
  • Sapendo che la benzina ha un potere calorifico di 12,2 kWh/kg e il gasolio di 12,7 kWh/kg e tenendo conto che il ciclo dei motori a benzina (ciclo Otto) ha rendimenti dell’ordine del 35 per cento mentre quello dei motori turbodiesel del 40 per cento circa, vuol dire che in Italia il fabbisogno di energia meccanica per autotrazione all’asse delle ruote ammonta a circa: 0,35 x 7.000.000.000 [kg] x 12,2 [kWh/kg] + 0,40 x 23.000.000.000 [kg] x 12,7 [kWh/kg] = 146.730.000.000 kWh, cioè 146,73 TWh.
  • Sapendo che il rendimento di un veicolo elettrico si aggira ottimisticamente intorno al 93 per cento, il medesimo fabbisogno di energia meccanica all’asse delle ruote si otterrebbe alimentando le batterie con energia elettrica pari a: 146,73 / 0,93 = 157,77 TWh.
  • Sapendo infine che le perdite di rete per trasportare l’energia elettrica dai punti di generazione (wind farms, solar farms, centrali a biomasse, centrali idroelettriche e punti di accumulo) fino alle colonnine di ricarica si aggirano intorno al 10 per cento, per poter fornire l’energia di 157,77 TWh alle batterie occorrerà generare 157,77 / 0,9 = 175,3 TWh, arrotondato per difetto a 175 TWh/anno.

Quanto invece al fabbisogno di materie prime critiche, in un veicolo elettrico esse si concentrano quasi essenzialmente nella batteria. Considerando per semplicità solo le automobili circolanti (40 milioni), e supponendo che le equivalenti auto elettriche siano dotate tutte di una batteria da 50 kWh, avremmo il seguente fabbisogno di materie prime critiche:

  • Alluminio: 1,00 [kg/kWh] x 50 [kWh] x 40.000.000 = 2 milioni di tonnellate.
  • Grafite: 1,00 [kg/kWh] x 50 [kWh] x 40.000.000 = 2 milioni di tonnellate.
  • Rame: 0,50 [kg/kWh] x 50 [kWh] x 40.000.000 = 1 milione di tonnellate.
  • Terre rare (Cerio, Lantanio e Neodimio): 0,50 [kg/kWh] x 50 [kWh] x 40.000.000 = 1 milione di tonnellate.
  • Nickel: 0,40 [kg/kWh] x 50 [kWh] x 40.000.000 = 800.000 tonnellate.
  • Manganese: 0,35 [kg/kWh] x 50 [kWh] x 40.000.000 = 700.000 tonnellate.
  • Cobalto: 0,30 [kg/kWh] x 50 [kWh] x 40.000.000 = 600.000 tonnellate.
  • Litio: 0,25 [kg/kWh] x 50 [kWh] x 40.000.000 = 500.000 tonnellate.

(2) Metano. Il consumo di metano nel 2022 in Italia si è attestato a 68,5 miliardi di m3. Poiché il metano ha un potere calorifico di 9,94 kWh/m3 e considerato che esso è utilizzato quasi del tutto per utilizzi termici (riscaldamento, forni industriali, ecc.), ciò vuol dire che per la sua sostituzione occorrerebbero ulteriori 68.500.000.000 x 9,94 = 680.890.000.000 kWh/anno, cioè circa 681 TWh/anno aggiuntivi di energia elettrica. Ciò in quanto, in virtù del cosiddetto “effetto Joule”, l’energia elettrica può essere trasformata al 100 per cento in calore, il che, per inciso, è un pessimo modo di utilizzare la forma più pregiata di energia ma è pur sempre fattibile.

La sostituzione del metano con energia elettrica comporterebbe, come conseguenza, la conversione di tutti i bruciatori a gas con gli analoghi sistemi elettrici.

(3) Acciaierie. In Italia si producono all’incirca 21,5 milioni di tonnellate annue di acciaio, di cui il 30 per cento, pari a circa 6,5 milioni di tonnellate, in forni elettrici i cui consumi sono già computati nei 320 TWh/anno di energia elettrica consumata attualmente in Italia. Il rimanente 70 per cento, pari a circa 15 milioni di tonnellate, viene prodotto invece utilizzando carbon coke negli altiforni.

Il fabbisogno di carbon coke in un’acciaieria è di circa 0,4 tonnellate per ogni tonnellata di ghisa prodotta. Pertanto, il fabbisogno annuo sarà: 0,4 x 15.000.000 = 6 milioni di tonnellate. Sapendo che il potere calorifico del carbon coke è di 8,22 kWh/kg, per la sua sostituzione occorrerebbero ulteriori 6.000.000.000 x 8,22 = 49,32 TWh/anno, arrotondati per difetto per comodità di calcolo a 49 TWh/anno aggiuntivi di energia elettrica.

Anche nel caso delle acciaierie, la sostituzione del carbon coke con energia elettrica comporterebbe il soppiantamento degli altiforni e l’adozione di forni elettrici ad arco, dove possibile.

Fabbisogno complessivo

Ricapitolando, a partire dal 2050 il fabbisogno complessivo di energia elettrica rinnovabile sarà pari all’elettricità attualmente consumata (317 TWh/anno) più, in aggiunta, 175 TWh/anno per la sostituzione dei combustibili fossili per autotrazione, 681 TWh/anno per la sostituzione del metano e 49 TWh/anno per la sostituzione del carbon coke. In definitiva, occorreranno circa 1.222 TWh/anno. Sottraendo l’energia che già oggi proviene da fonte rinnovabile (circa 100 TWh/anno), occorrerà produrne ulteriori 1.122 TWh/anno, cioè più di 11 volte la produzione odierna.

Produzione di energia rinnovabile

Poiché la capacità degli impianti idroelettrici è pressoché saturata (a meno di piccole migliorie che forse sarà possibile ottenere in termini di aumento dei rendimenti degli impianti esistenti), per ottenere i 1.122 TWh/anno aggiuntivi di energia elettrica rinnovabile occorrerà quindi incrementare di parecchi ordini di grandezza il numero di impianti eolici, fotovoltaici e biomasse.

Per il calcolo degli impianti aggiuntivi, supponiamo di voler mantenere inalterato il rapporto odierno di produzione tra queste tre tecnologie (38 per cento da eolico, 52 da fotovoltaico e 10 dalle biomasse). Suddividendo proporzionalmente i 1.122 TWh/anno in ragione di queste percentuali, dovremmo quindi produrre ulteriori 426 TWh/anno eolici, 583 TWh/anno fotovoltaici e 113 TWh/anno da biomasse. Per i nostri conti della serva considereremo infine un fattore di disponibilità del 95 per cento degli impianti, fattore che indica la percentuale di ore dell’anno in cui gli impianti sono disponibili a generare energia (8.320 ore), che è ciò che si considera nelle buone pratiche industriali.

(1) Eolico. Per raggiungere il target dei 426 TWh/anno da fonte eolica occorreranno ulteriori 60.000 turbine eoliche da 2 MW di targa (la taglia universalmente più diffusa e affidabile – diametro rotore 80 m, altezza torre 100 m, peso 310 tonnellate + 800 tonnellate di calcestruzzo per le fondazioni), ognuna in grado di generare circa 7,5 GWh/anno in siti idonei, per un totale di poco meno di 19 milioni di tonnellate di materiali e 48 milioni di tonnellate di calcestruzzo.

Dovremmo cioè installare 2.222 nuove turbine ogni anno (700.000 tonnellate di materiali + 1.800.000 tonnellate di calcestruzzo – il 10 per cento della produzione annua italiana) fino al 2050 nelle aree italiane idonee che sono circa il 15 per cento della superficie del Paese e sono prevalentemente concentrate nel Sud Italia e nelle Isole. In buona sostanza, questo significherebbe avere una nuova grande turbina eolica ogni 0,75 km2 di territorio idoneo: una fitta distesa di turbine in ogni direzione distanziate 900 metri l’una dall’altra nelle aree favorite (o sfavorite, a seconda dei punti di vista), un reticolato perverso.

So già a cosa state pensando: invece di devastare i 45.000 km2 di aree geografiche profittevoli per l’eolico, poiché l’Italia ha 7.000 km di coste, perché non installare le turbine lontano dalla vista e metterle al largo (“offshore”) oltre la linea dell’orizzonte come si fa in Nord Europa?

Devo darvi una brutta notizia: affinché le installazioni offshore siano economicamente convenienti, occorre che le fondazioni delle turbine possano poggiare direttamente sul fondale e, perché ciò accada, occorre che la profondità non sia superiore ai 70 metri:

  • Per profondità non superiori ai 15 metri si utilizzano grossi pali detti “monopile”, come è ad esempio il caso del Mar Baltico.
  • Per profondità dai 15 ai 40 metri si utilizzano sistemi più complessi detti “tripodi”.
  • Per profondità dai 40 ai 70 metri vanno installati invece dei veri e propri tralicci sottomarini detti “jackets”.

Oltre i 70 metri, occorre che le turbine siano installate su piattaforme galleggianti ancorate al fondale per mezzo di quattro linee di catene, una per ciascun vertice della piattaforma, ma questo fa lievitare a dismisura i costi di installazione e di manutenzione e, di conseguenza, il cosiddetto LCOE (Levelized Cost of Energy – Costo livellato dell’Energia).

Ebbene, purtroppo (o per fortuna!), alla linea dell’orizzonte (5 km circa) i fondali marini italiani sono tutti molto profondi e quindi, salvo installare le turbine eoliche sul bagnasciuga (cosa che è stata fatta nel porto mercantile di Taranto, ad esempio: un vero obbrobrio), la soluzione offshore è per noi economicamente preclusa.

Quanto infine al fabbisogno di materie prime:

  • Calcestruzzo: 800 [ton/unità] x 60.000 = 48.000.000 tonnellate.
  • Acciaio: 279 [ton/unità] x 60.000 = 16.740.000 tonnellate.
  • Fibra di vetro: 25 [ton/unità] x 60.000 = 1.500.000 tonnellate.
  • Rame: 3,5 [ton/unità] x 60.000 = 210.000 tonnellate.
  • Alluminio: 2,3 [ton/unità] x 60.000 = 138.000 tonnellate.
  • Zinco: 0,20 [ton/unità] x 60.000 = 12.000 tonnellate.

(2) Fotovoltaico. Sapendo che 1 m2 di pannello fotovoltaico al silicio monocristallino produce in Italia in media 200 kWh/anno, per raggiungere il target dei 583 TWh/anno da fonte fotovoltaica occorrerà installare ulteriori 3.068 km2 di pannelli, corrispondenti a poco meno di 31 milioni di tonnellate di materiali, cioè 114 km2 (1.140.000 tonnellate) di nuovi pannelli ogni anno fino al 2050. Ogni regione dovrà cioè essere coperta per l’1 per cento della sua superficie da nuovi pannelli oltre l’attuale copertura che, ricordiamo, si aggira intorno ai 300 km2 complessivi.

A tal proposito, occorre sottolineare un effetto collaterale associato alla diffusione massiva di pannelli fotovoltaici mai sufficientemente enunciato e divulgato. Infatti, la copertura del territorio con pannelli neri incrementa la frazione di radiazione solare catturata al suolo che, poiché per l’80-85 per cento non verrà convertita in elettricità, si trasforma in calore in eccesso che provoca di conseguenza incrementi significativi delle temperature locali, con netto peggioramento del microclima: un vero e proprio effetto serra su scala locale.

Naturalmente, l’obiettivo di coprire l’1 per cento della superficie italiana di pannelli fotovoltaici non farà altro che amplificare tale effetto su scala più vasta. Riuscite a cogliete il paradosso? Per combattere l’ipotetico effetto serra globale dovuto all’aumento di concentrazione di CO2 in atmosfera, provochiamo l’effetto serra sicuro su scala locale dovuto alla presenza massiccia di pannelli fotovoltaici sul territorio.

Quanto infine al fabbisogno di materie prime:

  • Vetro: 80,1% = 24.831.000 tonnellate.
  • Alluminio: 9,8% = 3.038.000 tonnellate.
  • Silicio: 4,7% = 1.457.000 tonnellate.
  • Tedlar: 4,3% = 1.333.000 tonnellate.
  • Altri materiali: 0,8% = 248.000 tonnellate.
  • Rame: 0,3% = 93.000 tonnellate.

(3) Biomasse. Sapendo che oggi 764 MW di installato producono 5,5 TWh/anno bruciando 11 milioni di tonnellate di cippato di legno, per raggiungere il target dei 113 TWh/anno da fonte biomasse occorrerà installare ulteriori 15.700 MW di impianti, cioè 1.570 nuove centrali da 10 MW (la taglia più efficiente), per alimentare le quali occorrerebbero poi ulteriori 226 milioni di tonnellate l’anno di cippato di legno, 6 volte la produzione annua nostrana.

Compensazione dell’intermittenza

Per ovviare all’intermittenza della generazione da fonti rinnovabili occorrerà prevedere delle batterie di accumulo distribuite sul territorio. Il criterio empirico di dimensionamento segue la regola: C = E/365, dove C è l’energia di accumulo ed E è l’energia prodotta totale.

Nel nostro caso sarà: C = 1.222/365 = 3,48 TWh, equivalenti a 33 milioni di m3 (75 milioni di tonnellate) di batterie al piombo-acido (il litio è più prezioso e serve per le auto elettriche!) da distribuire sui 302mila km2 di superficie italiana. In media 109 m3 (250 tonnellate) di batterie per ogni km2: 302.000 edifici 5x7x3 metri disseminati sul territorio pieni zeppi di batterie da sostituire in media ogni 1.500 cicli di carica/scarica (24 ore), cioè ogni 4 anni.

Adeguamento della rete

La nostra attuale rete di distribuzione attuale gestisce, come visto, 317 TWh/anno di energia elettrica con flusso medio di potenza pari a 30 GW circa e picchi fino a 50 GW. Dai dati Terna desumiamo che:

  • La rete di trasmissione in Alta Tensione (AT – 220 e 330 kV) si stende per 60.000 km ed è sorretta da 200.000 tralicci di 30 tonnellate ciascuno. I conduttori, ciascuno di sezione 50 mm2, sono disposti ai vertici di un triangolo equilatero di lato 400 mm (rame impiegato: 1,35 tonnellate/km, acciaio: 100 tonnellate/km).
  • La rete di distribuzione in Media Tensione (MT – 10-20 kV) si stende per 350.000 km ed utilizza tipicamente cavi MT 3x120mm2 (rame impiegato: 3,23 ton/km) sorretti generalmente ma non necessariamente da pali in cemento armato di 5 metri di altezza.
  • La rete di distribuzione in Bassa Tensione (BT – 380 V) si stende per 780.000 km ed utilizza tipicamente cavi BT 3x120mm2 (rame: 3,23 ton/km) sorretti generalmente ma non necessariamente da pali in cemento armato di 5-6 metri di altezza.

Dovendo tuttavia gestire 1.222 TWh/anno, cioè poco meno del quadruplo dell’attuale consumo di energia, è lecito aspettarsi che anche la potenza media e quella di picco nello scenario “net zero” sarebbero il quadruplo delle attuali, cioè 120 GW medi con punte di 200 GW.

Considerando l’attuale riserva di capacità della rete e immaginando di “rosicchiarla” tutta nel nuovo scenario, ciò porterebbe quindi alla necessità almeno di triplicare l’intera rete elettrica. Per far questo occorrerebbero ulteriori 180.000 km di elettrodotti in AT, ulteriori 600.000 tralicci in AT, ulteriori 1.050.000 km di rete di distribuzione in MT ed ulteriori 2.340.000 km di rete di distribuzione in BT.

Ciò porterebbe al seguente fabbisogno di rame e acciaio:

  • Rame: 1,35 x 180.000 + 3,23 x 1.050.000 + 3,23 x 2.340.000 = 11.192.700
  • Acciaio (solo per i tralicci AT): 100 x 180.000 = 18.000.000

Entro il 2050, occorrerebbe quindi approvvigionare circa 12 milioni di tonnellate di rame (450mila tonnellate ogni anno fino al 2050) e 18 milioni di tonnellate di acciaio (670mila tonnellate ogni anno fino al 2050), oltre a un numero imprecisato di pali in cemento armato per le linee MT e BT.

Tenendo conto che la produzione mondiale annua di rame è 21 milioni di tonnellate mentre quella di acciaio è 140 milioni di tonnellate, per il solo ampliamento dell’infrastruttura di rete l’Italia dovrebbe aggiudicarsi, per ogni anno da oggi fino al 2050, il 2,1 per cento della produzione mondiale di rame e lo 0,5 per cento della produzione mondiale di acciaio.

Conclusioni

Guardando i semplici conti della serva messi nero su bianco qui sopra, avrete ormai capito che l’obiettivo “net zero” non è affatto realisticamente raggiungibile nel 2050 e, probabilmente, non lo sarà nemmeno nel 2150, tante e tali sono le trasformazioni necessarie e i fabbisogni di materie prime critiche.

Sempre che il reale obiettivo non sia invece incidere pesantemente sulla qualità della vita dei cittadini Ue e, anziché far crescere l’Unione rendendola sempre più il “giardino d’Europa”, come ama ripetere l’attuale gruppo dirigente con a capo Ursula von der Leyen, farla invece regredire verso un deserto deindustrializzato in cui la vita scorra in un nuovo medioevo post-tecnologico come il futuro distopico prospettato da tanti film di fantascienza.

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