Esteri

Alla ricerca dell’altra Russia possibile: perché il putinismo non è inevitabile

Da Puskin a Sakharov alla Nabiullina, ecco le ragioni che contraddicono il fatalismo di una presunta irriformabilità della Russia

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L’altra Russia, che non sta né con Putin né con Prigozhin (o quel che ne resta) … è proprio impossibile trovarla? Mentre l’esercito ucraino ingaggia una difficile controffensiva sui campi minati del Donbass e il rublo raggiunge la parità col centesimo di euro, ci chiediamo se sia possibile una Russia passabilmente “liberale” o se il futuro del più grande Stato della terra per estensione territoriale sia quello di diventare un avamposto della Cina Popolare, inasprendo addirittura i tratti autoritari che hanno caratterizzato il Ventennio putiniano.

Russia irriformabile?

I pessimisti radicali sostengono che mai la Russia potrà essere “europea” nell’accezione più matura del termine, perché in fondo non lo è mai stata: da Ivan il terribile a Putin passando per Pietro il Grande e Stalin, anche i tentativi di modernizzazione o addirittura di occidentalizzazione (si veda la fondazione di San Pietroburgo come “finestra d’Occidente” della Russia) sono avvenuti sempre per “ukase”: spietati ordini dall’alto.

Eppure un’altra Russia è esistita, innanzitutto nella cultura più alta e ossequiata dalla stessa classe dirigente di oggi. L’istituzione russa che si propone il compito di diffondere la lingua e la cultura russe nel mondo si chiama Istituto Puškin, dunque riconosce a quell’autore lo stesso ruolo che svolge in Italia Dante Alighieri e in Germania Goethe.

Già, ma Puskin, a differenza degli intellettuali dell’entourage putiniano come Dugin, fu un autore di formazione decisamente occidentale: fervente ammiratore di Voltaire, fondeva nella sua opera lo spirito illuminista del Settecento con la nuova sensibilità romantica.

Dal pensiero all’azione: Puškin divenne il punto di riferimento dei Decabristi, gli ufficiali liberali che furono protagonisti nel dicembre (Декабрь, Dekabr’, da cui decabristi) del 1825 di un moto “carbonaro” a San Pietroburgo. Il tentativo fu velleitario, la repressione del potere zarista inesorabile.

Tolstoj e Dostoevskij

Ma allora ogni tentativo di riforma in Russia era destinata a fallire? No e due ragioni contraddicono questo presunto fato. La prima ragione è culturale. Le due stelle più brillanti della letteratura russa dell’Ottocento, Tolstoj e Dostoevskij, indicavano in tutta o in parte della loro opera una luce in fondo al tunnel dell’autocrazia.

Tolstoj – che come Puskin fu affascinato dall’illuminismo e in particolare da Rousseau – indicò un nuovo senso di religiosità che contraddiceva l’autoritarismo della Chiesa Ortodossa affermando i principi della non violenza, dell’umanitarismo, del rapporto libero e interiore con il Divino.

D’altra parte Dostoevskij, pur esaltando l’Ortodossia come espressione dell’anima di popolo russa, condannò il clericalismo che aveva ingabbiato il cristianesimo. Questo il messaggio della sua Leggenda del Santo Inquisitore contenuto nei Fratelli Karamazov. Il racconto è ambientato nella Spagna dell’Inquisizione e narra del ritorno di Cristo. L’Inquisitore arresta Gesù e gli spiega come la Chiesa abbia dovuto travisare e neutralizzare il suo messaggio per mantenere l’umanità in uno stato di quiete e sicurezza.

Qui davvero Fëdor parla a “nuora” cattolica, perché “suocera” ortodossa intenda… siamo a livelli altissimi di letteratura e nello stesso tempo su una sponda opposta rispetto a quel connubio cesaropapista tra Autorità politica assoluta e una compiacente Chiesa di Stato incarnato oggi dai due ex agenti KGB Putin e Kirill…

I movimenti riformatori

Ma la seconda ragione che contraddice il fatalismo di una presunta irriformabilità della Russia è che nel corso del Novecento, prima della catastrofe bolscevica, movimenti riformatori vinsero in elezioni sufficientemente libere, vale a dire raccolsero la maggioranza dei consensi di un popolo che lo stereotipo descrive come un gregge sempre prono a un Padre-Padrone.

Alle elezioni della Duma successive alla Rivoluzione del 1905 si affermò il Partito Costituzionale Democratico, i cosiddetti “Kadetti” dalla sigla KD del partito. Particolare interessante, i liberali del PKD si affermarono dopo una guerra di conquista che sembrava una facile avventura – la guerra russo-giapponese – e che invece si concluse con una netta disfatta e una rivoluzione di popolo.

Se i “Kadetti” erano liberali, il Partito Socialista Rivoluzionario, ben distinto dai comunisti di Lenin, aveva orientamento socialdemocratico. Fu il partito che espresse il leader che gestì la difficile transizione dalla monarchia zarista alla Repubblica, Aleksandr Kerenskij, convinto che la Russia dovesse tener fede all’alleanza con le nazioni occidentali (Inghilterra, Francia, Italia) nella Prima Guerra Mondiale.

Il golpe bolscevico

I comunisti italiani nella loro narrazione enfatica della Rivoluzione d’ottobre hanno sempre omesso due dettagli (non proprio insignificanti): la loro rivoluzione fu in realtà un “golpe” realizzato solo con l’esercizio della violenza da parte della Armata Rossa, ma quando si andò a votare per eleggere i deputati all’Assemblea Panrussa a vincere, a dispetto del primato militare dei comunisti, furono i socialisti riformisti di Kerenskij.

I Russi diedero maggior consenso all’opzione social-democratica, che non a quella dittatoriale-comunista. Ovviamente i comunisti si presero la rivincita con l’esercizio della forza e mentre nasceva l’URSS, a Kerenskij non rimase che rifugiarsi a Parigi, poi negli Stati Uniti dove il suo pensiero trovava forti convergenze con l’ideologia democratica di Roosevelt.

Nell’URSS il dissenso riuscì a salvarsi dalle deportazioni e dalla morte solo in figure di scienziati e letterati divenuti troppo celebri a livello planetario per poter essere annichiliti: pensiamo a Boris Pasternak, allo scienziato Sacharov.

Ma se l’URSS cadde fu principalmente opera della “opposizione esterna” di una figura come Ronald Reagan, che fece esplodere le contraddizioni di quel gigante meccanico sagomato di bombe atomiche ma pieno di inefficienza economica interna.

Dopo Eltsin il difficile cammino verso uno standard quantomeno accettabile di democrazia si è interrotto con Putin.

Il Ventennio putiniano

La Demokratura del Ventennio putiniano si è sostanziato nella formula del “Triciclo”, un grande partito-Stato – Russia Unita – affiancata ai suoi lati da due partiti di compiacente opposizione: il Partito Comunista Russo, che rimprovera a Putin di essere troppo poco nostalgico del Sovietismo e il Partito Liberaldemocratico (sic) fondato da Vladimir Zirinovskij che accusa Putin di essere poco nazionalista e troppo accomodante con l’Occidente…

Al di fuori di questo perimetro di potere (ma diciamo pure “partito unico” dell’ex KGB), i deboli e contraddittori eredi della stagione gorbacioviana, di quella eltsiniana e oppositori più radicali come Navalny che pure si compiaceva – prima di finire in gabbia – di mescolare istanze libertarie e appelli alla pancia nazionalista del Paese.

Kasparov e Nabiullina

In questa cornice poco esaltante, il ruolo che fu di Sacharov sembra essere svolto da una mente geniale, a suo modo scientifica, come il grande campione di scacchi Garry Kasparov, autore di testi non banali come L’inverno sta arrivando” e “Scacco matto a Putin”. Kasparov prudentemente si tiene a debita distanza dalla sua terra di origine e vive solitamente a New York, dopo aver assunto cittadinanza croata.

È solo utopia sperare che dal pasticciaccio brutto della invasione della Ucraina emergano dei nuovi Kadetti? Putin è destinato a essere sostituito da un altro Putin magari più grigio e burocratico?

Dalla sostanziale apatia della popolazione (che ha espresso il suo massimo dissenso utilizzando le gambe verso le vie di fuga quando si prospettava una più massiccia mobilitazione militare) si distacca quantomeno la figura della governatrice della Banca di Russia, Elvira Nabiullina. Ha scritto Maurizio Stefanini su Linkiesta lo scorso 19 giugno:

Considerata una tecnocrate liberale piuttosto efficiente, la Nabiullina è un personaggio piuttosto non in sintonia con il profilo medio dei pezzi grossi della Russia putiniana, e circola dunque insistente la voce secondo cui al momento dell’attacco all’Ucraina avrebbe cercato di dimettersi, ma ne sarebbe stata impedita.

Insomma, non un leader politico, non una figura “profetica”, ma una donna che, letteralmente, ha saputo fare i conti e indicare chiaramente i costi economici pesanti della avventura bellica chiamata “Operazione Speciale”.

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