Esteri

Canada spaccato: la vittoria striminzita di Carney non rimuove la macerie di Trudeau

Il cambio in corsa e l’imprevisto Trump che ha azzoppato Poilievre. Il neo-premier canadese è il prodotto più puro del globalismo di Davos. Polarizzazione geografica e generazionale

Mark Carney Canada

Elezioni alla canadese. D’ora in avanti potrebbe diventare un’espressione da manuale di scienza della politica, per descrivere la rocambolesca vittoria dei Liberal alle politiche canadesi, con i Conservatori sconfitti dopo aver avuto per mesi la vittoria praticamente in tasca.
Mandiamo metaforicamente indietro al 6 gennaio il filmato della gara per capire la portata dell’evento.

Da Trudeau a Carney

È quello il giorno in cui Justin Trudeau, da 9 anni guida sempre più discussa dei Liberal e primo ministro del Canada, annuncia le dimissioni. A forzarlo alla scelta una fetta consistente del suo partito, ormai in aperta rivolta, con deputati che firmano appelli per chiedergli di farsi di parte. In sostanza, il partito stesso lo ha scaricato, conscio del disastro elettorale in arrivo, certificato da sondaggi da pugno nello stomaco: Conservatori sopra il 45 per cento e Liberal al 20 [1].

Insomma, una mattanza annunciata dalla profonda crisi economica e sociale in cui è sprofondato il Canada. Unica soluzione per salvare una barca piena di falle e prossima ad affondare? Mettere da parte Trudeau. Poi l’entrata in scena di Mark Carney, eletto nuovo leader dei Liberal il 9 marzo, e subito subentrato a Trudeau nel ruolo di primo ministro [2].

Volto relativamente sconosciuto al grande pubblico canadese, Carney in realtà è un solido uomo di apparato. Studi ad Harvard, ex uomo di Goldman Sachs, governatore della Bank of Canada prima e della Bank of England poi, primo straniero a ricoprire tale ruolo.

Carney ha cercato da subito di accreditarsi come uomo nuovo nel panorama canadese, nonostante i suoi trascorsi “tecnici”, tra cui quello di consigliere economico nei governi Trudeau. Come primo provvedimento ha abolito la famigerata “carbon tax”, la tassa sulle emissioni di anidride carbonica, togliendo un’arma formidabile dalle mani del leader dei Conservatori Pierre Poilievre, che aveva imbastito la sua campagna elettorale sullo slogan “Axe the Tax”, ossia tagliamo la tassa.

Questo però da solo non sarebbe bastato. Da una parte Carney e 9 anni di governo Liberal, dall’altra Pierre Poilievre. Classe 1979, un passato da ministro nel governo conservatore di Stephen Harper, di bella presenza, buon comunicatore in grado di fare il pienone ai comizi, e soprattutto incarnazione dei più genuini valori conservatori: stato minimo, massima autonomia individuale, bassa tassazione, cittadini di nuovo padroni delle proprie scelte e del proprio destino [3].

I disastri di Trudeau

In mezzo ai due contendenti, fatti salvi i leader dei partiti minori, le macerie lasciate da 9 anni di governi Trudeau: peggiore performance in termini di crescita del reddito pro-capite e del Pil pro-capite tra le economie del G7 [4], calo della produttività del settore privato [5] oberato dalle tasse [6], 700 milioni di dollari in investimenti privati persi in 10 anni, con gli imprenditori canadesi che hanno dirottato i loro capitali negli Usa, come spiegato da Poilievre stesso in un’intervista rilasciata a Jordan Peterson [7], costo della vita fuori controllo con un aumento delle spese per gli alimentari e l’affitto del 40 per cento in tre anni [8, 9],

Un trancio di salmone passato da 28 a 42 dollari dalla sera alla mattina, una gestione incosciente dell’immigrazione con l’arrivo di oltre 2 milioni di stranieri in due anni ed una quota di residenti temporanei passata dal 3,5 al 6,8 per cento sul totale della popolazione [10, 11], cosa questa che a sua volta ha esacerbato la “housing crisis”, l’impossibilità per molti canadesi di trovare/comprare casa, con il costo medio di una casa intorno ai 2 milioni di dollari canadesi a Vancouver ed un affitto medio di 2.500 dollari al mese [12, 13].

A completare un quadro desolante, il deterioramento della qualità della vita nelle principali città canadesi, alle prese con la crisi degli oppioidi, ed il fallimento di Hudson Bay, la più antica azienda del Paese, con la probabile perdita del posto di lavoro per quasi 10.000 dipendenti.

L’imprevisto Trump

Con premesse del genere Poilievre sembrava a tutti gli effetti un maratoneta in testa e prossimo al traguardo, con un distacco chilometrico sul secondo, Mark Carney. Fino a che Poilievre non è inciampato in un ostacolo imprevedibile, che l’ha fatto ruzzolare per terra: Donald Trump.

Fin da subito il neo-eletto presidente americano ha adottato un atteggiamento decisamente ostile verso il Canada. La naturale e diciamolo pure, giustificata, antipatia che The Donald ha sempre provato nei confronti del super-woke Justin Trudeau, non lo ha indotto a più miti consigli una volta uscito di scena quest’ultimo. Le continue minacce di dazi sui prodotti canadesi (che hanno negli Stati Uniti il principale mercato) unite alle ripetute allusioni a fare del Canada il 51esimo stato degli Usa, hanno cambiato completamente l’esito della partita.

Carney è riuscito in qualche modo ad incarnare l’immagine del leader fermo e competente, in grado di rispolverare l’orgoglio nazionale, compattare i canadesi contro la minaccia da sud e affrontare in modo risoluto Trump.

Poilievre non è stato altrettanto efficace nel fare lo stesso. Il suo “Canada First” prontamente adottato dopo l’annuncio dei dazi da parte dell’amministrazione americana, è forse parso ad alcuni un calco troppo fedele dello slogan MAGA, senza che per questo Trump si facesse in qualche modo più comprensivo nei suoi confronti. Anzi, Trump stesso ha dichiarato di preferire un governo Liberal e di non curarsi minimamente di una sconfitta dei conservatori canadesi [14].

Successo non travolgente

Poilievre si è così ritrovato schiacciato tra incudine e martello, mostrandosi troppo canadese per Trump e troppo trumpiano per i canadesi. Il leader dei Conservatori, sconfitto persino nel suo stesso seggio elettorale, ha in sostanza prima vinto alla lotteria e poi perso il biglietto.

A dare una mano ai Liberal anche il collasso elettorale dell’NDP, il partito di sinistra che aveva assicurato l’appoggio a Trudeau prima di votare la sfiducia: molti suoi elettori hanno infatti votato il partito di Mark Carney. Va comunque detto che il successo Liberal non è stato così travolgente: Carney molto probabilmente formerà un governo di minoranza, come il precedente governo, dunque suscettibile a crisi e voti di sfiducia.

Trump non è Reagan

Il risultato di questa elezione, sorprendente fino a pochi mesi fa, deve far riflettere su alcune cose. La prima lezione che ci ha insegnato viene non dal Canada, ma dagli Stati Uniti.

Non è comune che in una moderna democrazia occidentale i risultati delle elezioni in uno stato siano condizionati in maniera così determinante dalle politiche adottate da un partner e alleato, per giunta confinante. Più nello specifico, è necessario concludere che la presidenza Trump si pone in totale rotta di collisione con il precedente ordine globale scaturito dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.

Donald Trump, in parole povere, non è Ronald Reagan. Quest’ultimo si presentava in tandem con Margaret Thatcher, e con la benedizione ideale di Giovanni Paolo II, come leader del mondo libero e alfiere dell’Occidente. Fu lui a sfidare Gorbaciov ad abbattere una volta per tutte il Muro di Berlino. Fu lui a vincere la Guerra Fredda con l’Urss. Reagan insomma riteneva in qualche modo che gli interessi americani coincidessero con la promozione dei valori conservatori nel mondo, per sfidare e piegare senza guerre i totalitarismi.

Trump adotta un approccio completamente diverso, che interpreta la realtà in un’ottica puramente “America First”. Non che sia illegittimo, intendiamoci, ed è pure coerente con quanto Trump ha ripetuto all’infinito in campagna elettorale. Abbiamo quindi un presidente che mantiene le promesse.

Questo però significa anche che considera come potenziali avversari quelli che fino a ieri erano amici di lunga data. Quando Trump minaccia di annettersi la Groenlandia o di fare del Canada il 51esimo stato americano, mostra in sostanza di fare poca differenza tra chi è alleato (se non altro militarmente e nella condivisione di valori di fondo occidentali) e chi è nemico. Tutto può diventare un intralcio alla realizzazione della nuova epoca d’oro americana da lui dipinta, anche la vittoria in un Paese confinante di un politico almeno sulla carta ideologicamente vicino.

Un Paese spaccato

Tornando a guardare al Canada si impongono ulteriori riflessioni. Osservando la distribuzione dei voti emergono due crepe belle grosse nel Paese degli aceri.

Il Canada dell’ovest (con l’eccezione di Vancouver), dell’Alberta e delle praterie centrali appare solidamente in mano ai Conservatori, mentre i Liberal si sono assicurati il grosso serbatoio di voti di Toronto (che pure ha recentemente riconfermato premier dell’Ontario il conservatore Doug Ford), e parte delle province atlantiche. Magari non abbastanza per compromettere la tenuta del Paese, ma sufficiente a solleticare spinte indipendentiste, soprattutto nella provincia dell’Alberta, nota come il Texas canadese [15].

L’altra polarizzazione è di carattere generazionale: mentre i giovani hanno votato prevalentemente per i Conservatori, terrorizzati da un mercato del lavoro sempre più precario e dall’impossibilità di comprare casa e mettere su famiglia, dai 50 anni in su ha prevalso il voto per i Liberal, forse anche per il timore di perdere con i tagli alle tasse proposti da Poilievre privilegi acquisiti [16].

Infine ci si deve interrogare sul livello di maturità di un elettorato, pronto a cambiare idea nel giro di alcune settimane, semplicemente sulla base degli annunci di Trump.

Molti indecisi hanno alla fine votato per Mark Carney, ritenendolo il più adatto a trattare col presidente americano, dimenticando che proprio il fatto che Carney abbia sostituito Trudeau costituisce la prova di quanto la gestione Liberal si sia mostrata impopolare e devastante per il Canada.

Uomo di Davos

Aveva dunque ragione Churchill quando si riferiva ai limiti profondi della democrazia, definendola il sistema meno peggiore di tutti gli altri. Chi scrive esprime tutto lo scetticismo possibile sul fatto che Carney possa rimettere in sesto un Paese che una volta primeggiava per qualità della vita.

Il neo-premier canadese è infatti il prodotto più puro del globalismo di Davos targato WEF. All’apparenza meno woke e sicuramente più autorevole di Justin Trudeau, come detto in precedenza è stato consigliere economico del suo predecessore. Difficile dunque credere che le sue politiche possano discostarsi più di tanto da quelle che hanno portato al disastro canadese che paradossalmente ha premiato i Liberal, suoi principali responsabili.

Appare quindi come una mossa poco più che elettorale l’abolizione della carbon tax, visto il suo impegno alla “decarbonizzazione” dell’economia, ossia la lotta alla Co2 [17] in nome della quale sacrificare sviluppo economico e posti di lavoro. Vinte le elezioni, si fa sempre in tempo a reintrodurla, magari con un altro nome.

È quando si parla di qualcosa di ancora più importante, vale a dire i valori e l’idea di Paese che si vuole difendere, che le cose si fanno inquietanti. Gratta il banchiere internazionale e scopri il pupillo di Klaus Schwab. È Carney stesso a spiegare in cosa crede e come vede il Canada nel libro di cui è autore “Value(s)”: correttezza, equità, resilienza, adattabilità, sostenibilità, responsabilità, comunità, cooperazione.

“Valori” che, come notato da Jordan Peterson [18], non sono affatto quelli costitutivi del Canada (fondato sui principi della civiltà giudeo-cristiana di libertà e diritti individuali, stato di diritto, uguaglianza di fronte alla legge), ma i dogmi fondamentali del globalismo ambientalista, dirigista e politicamente corretto.

Dietro la neolingua globalista si nasconde dunque un programma a base di politiche DEI (diversity-equity-inclusion, vale a dire quote woke per tutte le minoranze possibili ed immaginabili), dirigismo centralizzato per correggere le storture del libero mercato, politiche per ridurre le emissioni di anidride carbonica, considerata una minaccia esistenziale per il pianeta.

Insomma, una versione politicamente e climaticamente corretta di una vecchia ricetta da sempre fallimentare, che solo il timore verso Trump poteva riportare in auge: il socialismo.