Esteri

Ecco la “dottrina Trump”, versione unilaterale di un’America riluttante

Il coinvolgimento Usa nelle crisi internazionali risponde esclusivamente all’interesse nazionale, senza organismi internazionali e senza appoggio firmato “in bianco” agli alleati

Trump © George Robinson tramite Canva.com

È vero che viviamo in un’epoca dove tutto diventa spettacolo, ma trascurando questa sorta di “bolla di sapone” mediatica, che esagera e travisa atteggiamenti certo non convenzionali del presidente Donald Trump, forse conviene cercare di comprendere, alla luce della storia, la sostanza dei principi che ispirano la politica estera americana, da sempre un misto di valori ideali e di considerazioni pratiche finalizzato a realizzare non il mondo perfetto ma il male minore in circostanze sempre drammatiche, quali quelle legate alle guerre.

Usa potenza anticoloniale

Com’è noto, gli Stati Uniti nascono come potenza anticoloniale e in diretta opposizione alle pretese di dominio degli “imperi” europei, e per i primi decenni, la loro politica estera, che può essere definita “isolazionista”, ebbe come obiettivo soprattutto la salvaguardia della raggiunta indipendenza e al più la tutela del commercio estero.

Solo dopo la guerra con i britannici (1812 – 1815), segnata com’è noto da forti rovesci militari, venne ad emergere una visione anticoloniale più ampia, estesa a tutto il continente americano, che impegnava gli Stati uniti a favorire ed eventualmente ad aiutare militarmente tutte quelle popolazioni del nuovo mondo che decidessero di rendersi autonome dalle potenze coloniali europee.

Come si sa, tale concezione venne riassunta con la frase “L’America agli americani” e dato che essa fu enunciata nel 1823 dal presidente James Monroe (1758 – 1831, in carica dal 1817 al 1825) prese il nome di “dottrina Monroe”. Naturalmente la dottrina Monroe fu applicata in maniera empirica e tenendo conto dei rapporti di forza: da un lato gli Stati Uniti aiutarono ad esempio l’indipendenza di Panama dalla Colombia nel 1903, ma non riuscirono a impedire che il Canada rimanesse legato al dominio britannico sino al XX secolo.

Dall’altro lato l’espansione verso il Pacifico avvenne, oltre che tramite i conflitti con le tribù indiane, soprattutto grazie alla guerra con il Messico (1846 – 1848) nella quale ai motivi ideali (la tutela dei coloni americani installati in California) si unirono concreti interessi all’espansione “da costa a costa” della nuova potenza continentale.

Il primo interventismo

Una integrazione della dottrina Monroe si ebbe durante la cosiddetta “era progressista” della politica americana (circa 1890 – 1920), durante la quale l’impegno a sostenere anche militarmente l’indipendenza e lo sviluppo dei regimi democratici si estese sino a legittimare l’intervento militare americano al solo fine di instaurare la democrazia con la forza delle armi in una situazione di evidente fallimento politico e civile dello stato da soccorrere.

La prima applicazione di questa mutata concezione fu la guerra ispano-americana del 1898 che insieme alle operazioni nei Caraibi (occupazione di Cuba, Porto Rico) vide anche il primo intervento statunitense “stabile” al di fuori del continente americano (occupazione delle Filippine). A teorizzare questa integrazione dei principi delle politica estera americana fu nel 1904 il presidente Theodore Roosevelt (1858 – 1919, in carica dal 1901 al 1909) e la stessa prese il nome di “corollario di Roosevelt” alla dottrina Monroe.

Questa impostazione fu adottata del presidente Woodrow Wilson (1856 – 1924, in carica dal 1913 al 1921) ed estesa anche all’Europa per finalizzare l’intervento nella Prima Guerra Mondiale, che anche se determinato da una violazione da parte tedesca al libero commercio navale, ben presto assunse i caratteri di una guerra per l’autodeterminazione democratica dei popoli europei, soprattutto di quelli facenti parte degli imperi centrali sconfitti, che peraltro non riuscì ad eliminare le tensioni con le minoranze etniche in molti Paesi dell’Europa centrale.

Nella visione di Wilson svolgeva inoltre un ruolo molto importante un nuova struttura internazionale, la Società delle Nazioni, destinata idealmente ad assumere un ruolo quasi di “governo” mondiale della pace, ma l’adesione alla stessa non fu approvata dal Senato americano, il che fece fallire i progetti del presidente.

Il compromesso della Seconda Guerra Mondiale

La Seconda Guerra Mondiale, in cui gli Usa furono trascinati dall’attacco diretto delle potenze dell’Asse, soprattutto da parte dei giapponesi, vide un equilibrio tra lo slancio ideale al ripristino della democrazia e le necessarie considerazioni pratiche che portarono all’alleanza con l’Unione Sovietica: le foto della conferenza di Yalta del 1945 che mostrano il presidente americano Franklin D. Roosevelt (1882 – 1945, in carica dal 1933 al 1945) affiancato da un difensore della libertà democratica come Winston Churchill (1874 – 1965) e da un tiranno spaventoso come Iosif Stalin (1878 – 1953), mostrano in maniera chiara questo forse inevitabile compromesso.

La dottrina Truman

Nell’immediato dopoguerra però l’opposizione all’Unione Sovietica divenne una colonna portante della politica estera americana e una nuova impostazione della stessa fu enunciata dal presidente Harry Truman (1884 – 1972, in carica dal 1945 a 1953). La “dottrina Truman”, formulata nel 1947  prevedeva come scopo fondamentale della politica estera americana la difesa del mondo democratico-liberale dall’assalto del totalitarismo comunista: ai vecchi principi si sostituiva ora un criterio politico ideale “antagonista” esteso potenzialmente a tutto il mondo.

Questa concezione guidò tutto il periodo della Guerra Fredda che vide anche qui per motivi pratici degli interventi americani a favore di regimi autoritari, come il Cile del generale Augusto Pinochet (1915 – 2006) , la Grecia dei colonnelli ecc., e quanto alla nuova organizzazione internazionale, l’Onu, a cui gli Stati Uniti questa volta aderirono, essa svolse un ruolo secondario:  solo nel caso della guerra di Corea (1950 – 1953) gli Stati Uniti si valsero della sua legittimazione in funzione anticomunista. Fu attribuita invece grande importanza al ruolo della Nato, vista come alleanza tra i Paesi liberal democratici, sufficiente a legittimare un eventuale intervento militare americano a sostegno della democrazia.

Interventi post-Guerra Fredda

Con la fine della Guerra Fredda, le organizzazioni internazionali assunsero un ruolo centrale nella politica americana e divennero una sorta di lasciapassare per tutte le operazioni: la prima guerra del Golfo del 1990 fu combattuta contro il dittatore iracheno Saddam Hussein (1937 – 2006) da una coalizione amplissima, legittimata dall’appoggio dell’Onu nella quale gli Stati Uniti guidati dal presidente George H.W.Bush (1924 – 2018, in carica dal 1989 al 1993) avevano il ruolo centrale.

Quando invece gli Stati Uniti, guidati dal presidente Bill Clinton (n. 1946, in carica dal 1993 al 2001) decisero, dopo una iniziale freddezza, di intervenire nei conflitti nella ex Jugoslavia, in particolare nella guerra in Bosnia ed Erzegovina del 1995 lo fecero sotto la legittimazione della Nato: il mito del consenso mondiale stava incrinandosi, ma quello dei Paesi democratici resisteva.

L’esportazione della democrazia

A dare una nuova svolta alla politica estera americana fu però la “Guerra al Terrore” seguita agli attentati dell’11 settembre 2001 e guidata dal presidente George W. Bush (1946, in carica dal 2001 al 2009): se l’attacco all’Afghanistan nel 2001 fu approvato da una larga coalizione di Paesi occidentali, così non fu per la seconda guerra del Golfo contro l’Iraq iniziata nel 2003, quando prese sempre più piede il concetto di “guerra preventiva” agli stati “canaglia” presunti fomentatori del terrorismo internazionale.

Le guerre al terrore erano basate sul principio della “esportazione della democrazia” e se, con il senno di poi, possiamo dire che il terrorismo internazionale fu sconfitto, è altrettanto vero che i tentativi di esportare la democrazia con le armi fallirono quasi del tutto con il ritiro delle truppe dall’Iraq nel 2011 e dall’Afghanistan nel 2021. Da allora gli Stati uniti sono diventati una potenza definita “riluttante” ad impegnarsi in prima persona nelle guerre all’estero.

Potenza “riluttante”

Questa sorta di “riluttanza” ad intervenire militarmente all’estero da parte della maggiore potenza mondiale ha assunto sin qui due forme, antitetiche tra loro. La prima, seguita dal presidente Barack Obama (1961, in carica dal 2009 al 2017) e dal presidente Joe Biden (1942 e in carica dal 2021 al 2025) ha visto gli Stati uniti delegare quasi tutte le decisioni sugli eventuali interventi militari all’estero alle organizzazioni internazionali, limitandosi ad intervenire solamente “su richiesta” da parte delle suddette organizzazioni e/o da parte dei Paesi alleati.

L’esempio tipico è stato rappresentato dalla guerra per la “democratizzazione” forzata della Libia del 2011, basata su una ambigua risoluzione Onu, voluta dalle potenze europee (in particolare dai francesi, ma anche il nostro Paese come è noto partecipò) e appoggiata “a ruota” dagli americani, guerra che portò alla caduta del dittatore Mu’ammar Gheddafi (1942 – 2011), ma che suscitò parecchi dubbi sulla sua legittimità.

Ad una impostazione simile si è ispirata la politica del presidente Biden nei confronti della guerra in Ucraina, sostenuta dalla Nato e dall’Unione europea, una politica che ha portato gli americani non ad intervenire direttamente, ma a fornire un decisivo appoggio logistico, tecnologico e formativo all’esercito ucraino senza però farsi carico degli eventuali modi di giungere ad una pace.

La “dottrina” Trump

Pur mantenendo la impostazione “riluttante” all’intervento militare diretto, ed anzi accentuandola, l’amministrazione Trump, già nel primo mandato (2017 – 2021) del presidente in carica, a maggior ragione ora ha assunto una impostazione decisamente diversa, secondo la quale il coinvolgimento degli Stati uniti in crisi politiche internazionali deve essere il frutto di una decisione che questi ultimi assumono in prima battuta, sfruttando la loro superiorità militare, sempre ai fini di evitare l’impegno diretto in una guerra (la pace grazie alla forza), ma senza avere bisogno della legittimazione delle organizzazioni internazionali (che nel tempo hanno dimostrato tutti i loro limiti e i loro fallimenti), e senza necessariamente seguire in maniera passiva le decisioni degli alleati “democratici”, troppo spesso abituati a contare sull’appoggio firmato “in bianco” degli americani.

Una impostazione (sarà chiamata “dottrina Trump”? chi vivrà vedrà…), con cui oggi si deve fare i conti, tenendo conto che la prospettiva, ad esempio, di un esercito europeo è molto vaga e, in assenza di una unione politica e culturale tra gli stati del vecchio continente (ancora più vaga), potenzialmente molto pericolosa perché potrebbe portare ad un pericolo di dominio militare-tecnocratico.

Pertanto, con tutto il rispetto per chi la pensa diversamente, personalmente ritengo che un bilanciamento tra le non troppo forti ragioni ideali a sostegno della continuazione del conflitto in Ucraina (che è iniziato con l’invasione russa del 2022, ma che risale nelle sue origini al 2014 ed ha visto negli anni precedenti l’invasione, torti e violenze da ambo le parti) e quelle decisamente più pressanti che spingono a non inimicarsi definitivamente la Russia, porti ad approvare le iniziative di pace del presidente Trump.

Tenendo conto che in gioco non è la possibile futura invasione russa dell’Europa orientale (i russi si sono ritirati dall’Europa orientale perché non erano più in grado di gestirla né militarmente né economicamente e la loro situazione non è cambiata), ma solo l’appartenenza di determinate porzioni di territorio ucraino popolate da russi ai quali, in base al vecchio principio di “autodeterminazione” non sarebbe opportuno a mio avviso imporre, seguendo i confini tracciati durante l’epoca sovietica, quando gli stessi avevano il valore di semplici suddivisioni amministrative interne, né la democrazia né l’appartenenza al mondo occidentale, che devono essere sempre una libera scelta, come i fallimenti delle guerre al terrore hanno dimostrato.