Esteri

Il “Malleygate” prova degli errori di Obama e Biden sul nucleare iraniano

Una rete di spie iraniane di alto livello a Washington e regime di Teheran vicino all’atomica: due possibili scenari

Obama Biden

Sembra infinita la telenovela del “Malleygate”, che coinvolge Robert Malley, rappresentante degli Stati Uniti per l’Iran ora sospeso.

Il caso Malley

Malley, presidente dell’International Crisis Group dal 2018 al 2021 e nel 2014 scelto da Obama per condurre i negoziati per l’accordo sul nucleare, come riporta Tablet ha contribuito a finanziare, sostenere e dirigere un’operazione di intelligence iraniana finalizzata a influenzare gli Stati Uniti e i governi alleati, secondo una serie di e-mail del governo iraniano.

In particolare, aiutando a infiltrare un agente d’influenza iraniano di nome Ariane Tabatabai in alcune delle posizioni più delicate del governo degli Stati Uniti: prima presso il Dipartimento di Stato e poi presso il Pentagono, dove ha prestato servizio come capo dello staff dell’assistente segretario alla difesa per le forze speciali, Christopher Maier.

Due settimane alla bomba

Un patto nettamente favorevole agli interessi di Teheran che ha indebolito gli sforzi americani nella partita volta ad impedire che il regime possa dotarsi dell’ordigno atomico. Sappiamo quanto inaffidabili si siano rivelate in passato le promesse avanzate dal regime degli ayatollah sulla percentuale massima di arricchimento dell’uranio, in realtà segretamente prodotto e lavorato fino al punto di avvicinarsi pericolosamente alla quantità necessaria a fabbricare almeno una bomba nucleare.

Non a caso, secondo una recente indagine del Jerusalem Post, Teheran sarebbe già in grado di produrre il materiale fissile utile alla fabbricazione di un ordigno in sole due settimane dal momento dell’ordine politico. Un lasso di tempo alquanto ristretto, entro cui il monitoraggio dell’Intelligence occidentale non avrebbe modo di produrre risultati efficaci, tali da permettere di preparare ed esercitare l’opzione di un intervento militare contro i siti nucleari.

Due scenari

Pertanto, abbiamo dinanzi due possibili scenari da analizzare e un dato fattuale e negativo. Innanzitutto, duole constatare la difficoltà di Washington nell’attuare una strategia di deterrenza e risposta politica alla minaccia nucleare iraniana congiunta con Gerusalemme.

La differenza di approccio degli Usa al rischio di un Iran atomico rispetto a Israele – dovuta anche a fenomeni di vulnerabilità e debolezza, come mostra lo scandalo di Robert Malley – ha permesso a Teheran di sfruttare una faglia nel fronte avversario e perseguire efficacemente la propria strategia.

Se Washington avesse adottato una strategia indefettibile in merito alle ambizioni atomiche dell’Iran, in primis evitando l’accordo sul Jcpoa del 2015, probabilmente il pericolo sarebbe stato attenuato. Anche in ragione di ciò, le prospettive del dossier sembrano avere solo due sbocchi possibili: il primo – quello più drammatico – ascoltare l’improvviso annuncio del governo iraniano che afferma di essere riuscito a fabbricare la bomba, ponendo così un rischio irreversibile e strutturale alla sicurezza di Israele e dell’Occidente tutto.

Oppure, nella seconda ipotesi, anch’essa innegabilmente rischiosa, è possibile che venga prossimamente lanciato un attacco preventivo da parte delle forze israeliane contro i siti nucleari iraniani, anticipando le mosse di Teheran e cancellando ogni ambizione atomica del regime.

Tuttavia, creando anche le condizioni per un conflitto diretto su larga scala tra Iran ed Israele, con gli Usa costretti ad intervenire in supporto dell’alleato dopo aver indirettamente creato le condizioni per favorire la crisi con la propria errata strategia politica. Un boomerang evidente per un paese illusosi di poter svolgere trattative e stipulare accordi leali con uno Stato canaglia intenzionato a imporre il suo dominio nella regione.

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