Esteri

Kissinger, la “mente europea” della politica estera Usa

Il suo fu un realismo pragmatico e pessimista, capace di affascinare intere generazioni di politologi e funzionari, ma di condurre a forme di appeasement

Henry Kissinger

Il 20 agosto 1938, quando la sua famiglia fuggì dalla Germania hitleriana per evitare ulteriori persecuzioni naziste, Heinz Alfred (futuro Henry) Kissinger aveva quindici anni. La famiglia si fermò, brevemente, a Londra prima di arrivare a New York il 5 settembre del medesimo anno.

Forse, allora, il giovane rifugiato ebreo-tedesco non avrebbe obiettato all’affermazione del filosofo Leo Strauss, pronunciata in una conferenza del 1941 alla New School for Social Research, secondo cui il nichilismo nazista altro non faceva che prolungare il rifiuto dei fondamenti morali della civiltà moderna, caratteristico della tradizione filosofica tedesca. Strauss stesso, infatti, era un esiliato ebreo-tedesco.

Il realista

Kissinger, una volta divenuto la “mente europea” della politica estera americana, così definito dallo storico Bruce Mazlish – si laureò con una tesi intitolata “Peace, Legitimacy, and the Equilibrium (A Study of the Statesmanship of Castlereagh and Metternich)” – sposò un approccio rigorosamente “realista”, talvolta cinico, corrotto, vuoto e privo di onore.

Mosso dalla convinzione, derivatagli dal suo studio del Congresso di Vienna, secondo cui Stati Uniti e Unione Sovietica fossero due “grandi potenze”, proprio come, nel XIX secolo, lo erano state la Prussia e la Russia, svuotò la Guerra Fredda di quel contenuto ideologico che aveva precedentemente animato l’anticomunismo degli apparati statali statunitensi, a cominciare dalla CIA dei fratelli Dulles.

La crisi di fiducia in se stessi degli Stati Uniti, innescata dalla guerra del Vietnam e dalla contestazione studentesca, condusse, al termine degli anni Sessanta, al logoramento della strategia del containment del totalitarismo sovietico, elaborata un ventennio prima da George Kennan, che si fondava sulla convinzione di una superiorità morale ed economica degli Stati Uniti.

In un’America stretta tra la New Left che, iconoclasticamente, contestava i “valori tradizionali americani”, e coloro che, come James Burnham e Irving Kristol, chiedevano un impegno più intenso da parte dell’America per liberare il mondo dalla minaccia comunista, Kissinger si presentò come un disincantato “realista”, profondo conoscitore dei machiavellici espedienti che fanno delle relazioni internazionali un gioco esoterico di raffinate conversazioni e cerebrali approcci strategici.

Un progetto precario

Si trattò, perlopiù, di una intelligente ed efficace retorica. La sua azione politica non si discostò troppo dagli approcci consolidati della politica estera americana, se non per la lettura fortemente bipolare del sistema-mondo e la critica all’universalismo dei valori, a cui voleva sostituire la logica di potenza e gli imperativi dell’interesse nazionale.

Si potrebbe dire, forzando un poco, che l’ex rifugiato ebreo vedesse l’America “come un esperimento”, per usare una definizione di Arthur Schlesinger, ossia come un progetto precario da tenere al riparo da grandi, quanto incerte, avventure globali.

Il nuovo slancio idealista

L’ascesa, alla fine degli anni Settanta, del neoconservatorismo, fu certamente una reazione al “kissingerismo”, ovvero una difesa degli alti principi universali che avevano ispirato la politica estera statunitense nel primo ventennio della Guerra Fredda.

La riflessione politica di Kissinger, tutta avvinta dalle necessità della stabilità interna e dalla ricerca di un equilibrio sulla scena internazionale, determinarono un nuovo slancio idealista, soprattutto in quella “nuova” Destra, di matrice trotzkista, che vedeva nel conflitto politico-ideologico con l’Unione Sovietica un modo per ristabilire un rinnovato ordine morale in seno a una società americana disorientata e infiacchita dalle lotte per i diritti civili e dai movimenti di “liberazione”.

I neocons, in stretta collaborazione con la destra cristiana, riabilitarono l’universalismo liberale e rilanciarono la categoria di “totalitarismo” per designare il nemico da fronteggiare. Insomma, da una reazione al “kissingerismo” sorse quella volontà di recuperare i valori americani profondi, che si manifestò pienamente con l’elezione prima di Jimmy Carter e, poi, di Ronald Reagan.

Il rischio appeasement

Da allora, iniziò la progressiva marginalizzazione politica di Kissinger, ma non del suo “realismo” pragmatico e pessimista, capace di affascinare intere generazioni di politologi e funzionari pubblici, sia di orientamento conservatore che progressista.

Zbigniew Brzezinski, considerato l’anti-Kissinger, una volta disse, assai saggiamente, che “il pessimismo è una profezia che si autorealizza, e se si è politicamente impegnati, non ci si può permettere un disastro spengleriano come prospettiva di base”.

Il realismo “kissingeriano” conduce, molto facilmente, a forme di appeasement ben poco onorevoli e morali, come dimostrano la sua “freddezza” nei confronti dello Stato d’Israele, la sua indifferenza rispetto al destino dei dissidenti sovietici e, in tempi più recenti, le sue posizioni sulla Russia di Putin e sulla Cina di Xi.

A differenza di altri politici e studiosi della politica, quali Leo Strauss, Eric Voegelin, Natan Sharansky e Hannah Arendt, non comprese mai l’importanza di difendere la democrazia e i diritti umani negli affari internazionali.

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