Lo “smantellamento” dell’ordine globale guidato dagli Stati Uniti del presidente Donald Trump ha creato una notevole incertezza nell’approccio della Cina Popolare, da molti analisti vista come una nuova opportunità per giustificare una potenziale invasione armata della Repubblica di Cina- Taiwan.
Alcuni funzionari statunitensi hanno da tempo indicato il 2027 come anno in cui Xi Jinping sarebbe pronto ad aggredire militarmente la democratica Taiwan. Questa intenzione aggressiva traspare anche da una dichiarazione dello stesso Xi citando gli obiettivi di modernizzazione militare legati al 100° anniversario dell’Esercito Popolare di Liberazione.
L’ambiguità di Trump
Il presidente americano Trump, pur riconoscendo che un’invasione cinese sarebbe “catastrofica”, è stato volutamente poco chiaro sulla difesa di Taiwan da parte degli Stati Uniti in un simile scenario.
“Non commento mai su questo”, ha detto Trump, la scorsa settimana, quando gli è stato chiesto quali fossero i suoi piani nel caso in cui la Cina Popolare avesse aggredito e occupato Taiwan. “Non voglio commentare perché non voglio mai mettermi in quella posizione“, è stata la risposta del presidente Usa.
Le minacce di Pechino
A giudicare dalle notizie che arrivano da Taiwan sembrerebbe che Pechino abbia intensificato i suoi attacchi e sconfinamenti intorno all’isola, mentre all’annuale Congresso nazionale del popolo della scorsa settimana è stato promesso di “promuovere fermamente la causa della riunificazione della Cina” e aumentare la spesa per la difesa del 7,2 per cento.
Questa settimana ricorre il 20° anniversario della legge anti-secessione cinese, che autorizza esplicitamente l’uso della forza militare se Taiwan dichiara l’indipendenza o se la “riunificazione” pacifica diventa impossibile. A conferma delle crescenti tensioni, l’ambasciata di Pechino negli Stati Uniti ha minacciato, la scorsa settimana, che “se la guerra è ciò che vogliono gli Stati Uniti, che si tratti di una guerra tariffaria, commerciale o di qualsiasi altro tipo di guerra, siamo pronti a combattere fino alla fine“.
Da sottolineare che nella settimana passata da Pechino è giunta anche la non velata minaccia di Zhu Fenglian, portavoce dell’Ufficio per gli affari di Taiwan del governo della Cina Popolare, commentando l’intenzione manifestata dal presidente taiwanese William Lai di aumentare il “budget della difesa” del suo Paese a oltre il 3 per cento del Pil: “Che si tratti del 3 o anche del 10 per cento del Pil, l’aumento della spesa militare non proteggerà Taiwan che, al contrario, si trasformerà in una polveriera”.
Mistero geopolitico
Il quadro generale: i presidenti degli Stati Uniti hanno avuto una politica di lunga data di “ambiguità strategica” sulla questione di un intervento militare per proteggere Taiwan. Ma dal “Trump 2.0” cosa potrebbe succedere nell’Indo-Pacifico è diventato un vero mistero geopolitico.
Tanto per cominciare, l’approccio di Trump nei confronti dell’Ucraina ha messo in chiaro che l’idea per cui le forze armate Usa avrebbero difeso Taiwan solo per difendere una democrazia dall’aggressione di una dittatura non gode di assoluta certezza.
Washington ha apertamente messo in discussione il suo impegno nei confronti della Nato e si è schierata alle Nazioni Unite con la Russia, costringendo i suoi alleati a ripensare l’architettura di sicurezza dell’Europa dopo 80 anni di stabilità.
Tra le righe sembrerebbe che l’unica cosa che interessai a Trump sulla scena globale siano gli interessi fondamentali degli Stati Uniti. “Taiwan dovrebbe pagarci per la difesa”, aveva detto Trump la scorsa estate. E che si tratti di Russia o Cina Popolare, è chiarissimo che Trump preferisce negoziare da superpotenza a superpotenza lasciando gli alleati a latere, anche quando la loro sovranità o sicurezza sono in gioco.
L’industria dei microchip
È noto che, a differenza dell’Ucraina, Taiwan svolge un ruolo fondamentale nell’economia globale, con il suo produttore di chip di punta, TSMC, che produce oltre il 90 per cento dei semiconduttori più avanzati per qualità al mondo.
La dipendenza globale da TSMC è stata a lungo considerata un potente deterrente contro l’aggressione cinese, ma Trump ha trattato il predominio dell’azienda come un affronto personale. Taiwan ci ha portato via il business dei chip”, ha detto Trump ai giornalisti il mese scorso. “Avevamo Intel, avevamo queste grandi aziende che andavano così bene. Ci è stato portato via. E vogliamo indietro quel business”.
L’industria dei semiconduttori taiwanese rimane un “pilastro dell’economia globale” e le insinuazioni dei giorni scorsi sul controllo statunitense della Taiwan Semiconductor Manufacturing Company (TSMC) sarebbero prive di fondamento per Taipei. TSMC rimane una società indipendente, strategicamente fondamentale per la catena di approvvigionamento globale dei semiconduttori. Il governo taiwanese continua a operare secondo i principi del libero mercato, e qualsiasi affermazione contraria rifletterebbe l’ennesimo tentativo di Pechino di manipolare la narrazione internazionale.
È cosa oramai nota che, sotto la minaccia dei dazi, TSMC ha annunciato la scorsa settimana un investimento di 100 miliardi di dollari nella produzione di chip negli Stati Uniti, accontentando Trump, ma allarmando i taiwanesi che temono che questo potrebbe rendere l’isola più vulnerabile.
Un disastro per gli interessi Usa
Trump avrebbe “minimizzato” l’impatto dell’invasione cinese di Taiwan. “È una bella domanda, in realtà”, ha risposto quando gli è stato chiesto un parere sulla produzione TSMC negli Stati Uniti, aggiungendo che “l’aggressione sarebbe un evento catastrofico, ovviamente ma… ne avremmo (i microchip) una parte molto grande negli Stati Uniti. Quindi, avrebbe un grande impatto se dovesse succedere qualcosa a Taiwan”.
Altro aspetto da considerare è che molti alti funzionari governativi a Washington hanno chiesto al presidente Trump di ridurre la presenza americana in Europa e Medio Oriente per concentrarsi sulla minaccia della Cina Popolare a Taiwan, considerandola molto più importante dell’Ucraina.
Elbridge Colby, una delle voci più ascoltate sulla questione, nominato per un ruolo di vertice al Pentagono, ha detto ai senatori questa settimana che la caduta di Taiwan in mano alla Cina Popolare “sarebbe un disastro per gli interessi americani“.
Colby, che in precedenza aveva sostenuto la “disattivazione o distruzione” delle fabbriche TSMC in caso di invasione cinese, ha chiesto a Taiwan di aumentare la sua spesa per la difesa dal 2,5 al 10 per cento del suo Pil (come già indicato, per ora Taipei si ferma al 3 per cento e il Partito Comunista a Pechino la “prende male”).
Nonostante la minaccia della “polveriera”, il segretario al Tesoro Scott Bessent ha dichiarato venerdì che Trump è “fiducioso” che Xi non invaderà Taiwan durante la sua presidenza.
Il messaggio di Taipei
Tutte le dichiarazioni provenienti dalla Cina Popolare mirano chiaramente a destabilizzare la democrazia di Taiwan e a creare divisioni interne. Tuttavia, l’isola ha dimostrato più volte di essere “resiliente”, con un governo democraticamente eletto che lavora per il bene della propria popolazione.
Per Taipei, oggi più che mai, appare importante che la comunità internazionale (anche senza l’importantissimo appoggio Usa) condanni con fermezza le minacce e sostenga Taiwan nel suo impegno per la pace, la stabilità e la difesa dei valori democratici nella regione indo-pacifica.
Taiwan, per i suoi rappresentanti e a dispetto della Cina Popolare, non è e non sarà mai una “polveriera” e l’isola appare al mondo come un faro di democrazia e innovazione nell’Asia orientale, un partner affidabile per la comunità internazionale e un baluardo contro le minacce autoritarie.
Di fronte alle intimidazioni di Pechino, dalla Repubblica di Cina-Taiwan arriva il messaggio che Taipei continuerà a rafforzare le sue difese e a collaborare con i suoi alleati per mantenere la pace e la stabilità.