Esteri

Le mire di Xi Jinping sull’Asia ex sovietica

Le Repubbliche ex sovietiche rappresentano la prossima tappa dell’espansionismo di Pechino, che può sostituire Mosca quale potenza di riferimento nella regione

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I cinesi hanno la memoria lunga. Nonostante la “alleanza senza limiti” proclamata da Xi Jinping e Vladimir Putin, Pechino non ha mai digerito la conquista russa degli immensi territori asiatici che entrarono a far parte dell’impero zarista prima, e dell’Unione Sovietica in seguito.

Ritiene, con qualche ragione, che tali territori rientrino nella sua sfera d’influenza, piuttosto che in quella russa, in base a motivazioni geografiche e geopolitiche in primis, ma anche di maggiore affinità etnica. Dopo le difficoltà incontrate dalle forze armate di Putin nel conflitto ucraino, la questione ora riemerge in tutta a sua importanza.

La nuova Via della Seta

Inizio osservando che le Repubbliche ex sovietiche dell’Asia centrale non hanno approvato l’invasione dell’Ucraina, pur non aderendo alle sanzioni occidentali contro Mosca. Temono che, se la “operazione speciale” putiniana in Ucraina avesse successo, prima o poi toccherebbe pure a loro subire lo stesso trattamento in vista di quella ricostituzione di uno “spazio sovietico” più volte menzionata dalla leadership russa, e in particolare da Dmitrij Medvedev. Anche se è difficile capire come i russi, impantanati in Ucraina, possano ora compiere operazioni simili.

Xi Jinping ha perfettamente compreso la situazione e, non a caso, ha organizzato nell’antica capitale imperiale di Xian un meeting con i presidenti di Kazakistan, Tagikistan, Uzbekistan, Turkmenistan e Kirghizistan, al fine di valutare i cambiamenti in atto in quest’area così strategica per gli equilibri mondiali. Ma c’è di più. Tutte le Repubbliche di cui sopra hanno aderito al progetto cinese della “Nuova Via della Seta” che, come si rammenterà, venne ufficialmente annunciato da Xi proprio nella capitale kazaka.

L’incontro è un’ottima occasione per rinsaldare i rapporti, già ottimi, e per far capire che Pechino potrebbe sostituire Mosca quale potenza di riferimento nella regione. Come sempre fa, la Repubblica Popolare è pronta a investire grandi somme in aiuti finanziari e in progetti infrastrutturali.

Ha già costruito un oleodotto di 2.200 km destinato a portare il petrolio kazako nella regione cinese del Xinjiang (quella dove vivono gli uiguri perseguitati da Pechino) e, di recente, ha iniziato i lavori per un altro oleodotto Asia Centrale-Cina che dovrebbe collegare la Repubblica Popolare a Kazakistan, Uzbekistan e Turkmenistan.

La Cina sta anche approfittando del disastroso ritiro americano dall’Afghanistan per rassicurare le Repubbliche ex sovietiche che temono, al pari di Pechino, una nuova fioritura del fondamentalismo islamico nella regione. Anche per questo, a differenza degli occidentali, non criticano la Cina per la repressione degli uiguri musulmani nel Xinjiang.

Da Vladivostok a Haishenwai

Ma vi sono altri segnali significativi che indicano la nuova strategia globale di Xi Jinping. Da qualche tempo i media di Pechino hanno restituito a Vladivostok, il più grande porto russo sull’Oceano Pacifico, l’originario nome cinese di Haishenwai. Questo per far capire che considerano il porto e la regione circostante come parte della Repubblica Popolare, un segnale che i russi hanno subito colto. Nella storia – com’è noto – le “alleanze senza limiti” non sono mai durate a lungo.

Ci vorrà naturalmente del tempo affinché la strategia geopolitica globale di Xi si sviluppi pienamente. Ma è chiaro che la Cina intende tornare ad essere la potenza dominante in Asia (e non solo quella Orientale). Con Hong Kong “normalizzata” e Taiwan sotto pressione costante, le Repubbliche ex sovietiche rappresentano la prossima tappa dell’espansionismo di Xi, il “nuovo imperatore”.

Debolezza Usa-Russia

Lo favoriscono una doppia debolezza. Da un lato quella russa dopo la disgraziata invasione dell’Ucraina. Mosca non è neppure riuscita ad aiutare i tradizionali alleati armeni, aggrediti dagli azeri. E, dall’altro, quella statunitense, con il presidente Usa Joe Biden costretto a rinunciare a parte del suo viaggio asiatico per evitare il default dell’economia americana. Altro segnale di un Paese profondamente diviso al suo interno.