Mentre i giornaloni che piacciono alla gente che piace si stracciano le vesti per il ritorno alla Casa Bianca di orange man bad, il puzzone più puzzone che c’è, l’incarnazione di tutto quello che gli fa andare di traverso il tofu, le prime 48 ore della seconda presidenza Trump hanno visto un’enormità di executive orders che hanno lasciato di stucco anche gli osservatori più equilibrati.
Se gli analisti più moderati hanno scosso la testa di fronte all’uso smodato di questo strumento inteso come emergenziale, il team di Trump non ha che ripetuto quanto fatto da Biden nei suoi primi giorni alla Casa Bianca ma su scala ancora maggiore.
In estrema sintesi, se Biden si era impegnato per cancellare quanto fatto da Trump in quattro anni, la squadra di Trump ha un obiettivo più ambizioso: riportare l’orologio della politica americana al 2008, prima della nefasta era Obama. La cosa che fa andare in brodo di giuggiole i sostenitori del movimento America First è che Trump, come promesso in campagna elettorale, ha deciso di andare all in, implementando immediatamente alcune parti cruciali del suo programma.
Trump ha fatto i compiti a casa
Poco importa che molte di queste decisioni vedranno una feroce resistenza sia nel Congresso che nei tribunali: Trump ha fatto capire a tutti che stavolta ha fatto i compiti a casa e che non si farà distrarre dal raggiungere i suoi obiettivi. Se non sarà possibile esaminare nel dettaglio ognuno di questi executive orders, vediamo quali sono state le decisioni più sorprendenti e quelle che potrebbero impattare in maniera importante l’intero pianeta.
Invece di fidarvi delle analisi partigiane fatte da troppi “colleghi”, potete trovare ognuno di questi ordini direttamente sul rinnovato sito della Casa Bianca, dove, magari, saranno pubblicati anche gli ultimi decreti che rimangono ancora da implementare. In realtà non sono esattamente 200, visto che il numero è stato gonfiato per includere alcune decisioni e nomine di livello inferiore ma soprattutto per far scoppiare il fegato ai sinistrati, che stanno già perdendo la voce a forza di ululare alla luna.
Arrivare con un numero tale di decreti già pronti è un segnale chiaro di quello che molti avevano fatto finta di non vedere: Trump ha usato gli ultimi quattro anni per selezionare un gruppo di lavoro di ottimo livello e definire passo dopo passo cosa farà nel corso del suo secondo e ultimo mandato presidenziale.
Stop all’invasione
Addentrarsi nell’analisi dei singoli executive orders non è da tutti, visto che sono spesso documenti complessi, scritti in legalese e con infiniti riferimenti a leggi e decisioni giurisprudenziali ma la differenza rispetto alle consuetudini si vede già dai titoli. Il decreto che praticamente sigilla il confine messicano è chiamato Guaranteeing the states protection against invasion. Non “ingressi illegali”, non un’altra delle definizioni pelose tanto amate dai maestri del newspeak, quella che sta avvenendo da anni è un’invasione, dalla quale bisogna difendersi con tutti i mezzi.
Le misure prese nel dettaglio sono piuttosto tecniche ma l’effetto sul confine è stato pressoché immediato, visto che dopo neanche mezz’ora dall’inaugurazione alcuni varchi erano già presidiati da soldati armati fino ai denti.
Il secondo decreto è invece quello più singolare, visto che ordina che siano cambiati i nomi ufficiali della montagna più alta del Nordamerica e del golfo sul quale si affacciano gli stati meridionali dell’Unione. La sensazione è non sia una mossa ad effetto, fatta solo per far imbufalire i messicani ma ci vorrà del tempo per capire dove vorrà davvero andare a parare Trump.
Guerra ai Cartelli
Molto più significativo l’ordine successivo, che definisce i cartelli messicani che dominano il traffico di stupefacenti e clandestini come “organizzazioni criminali straniere”. Non è solo una questione di nomi, visto che il Patriot Act ed altre leggi mettono a disposizione strumenti molto potenti per stroncare queste minacce, anche limitando la possibilità di fare ricorso in tribunale.
Il testo parla per il momento di gang che operino nei confini nazionali ma la porta per azioni delle forze speciali oltre il confine è aperta. A Trump il compito di mettere pressione al Messico per consentire di colpire al cuore i cartelli e porre fine una volta per tutte al loro regno del terrore.
Guerra aperta a woke e DEI
Le tre decisioni che sembrano dare il segnale più importante della rivoluzione prossima ventura sono quelle subito successive, che prendono di punta il cosiddetto woke mind virus, arma di distruzione di massa spiegata con il compito di corrodere dall’interno le istituzioni e la società occidentale.
Da oggi ogni nuovo impiegato del governo federale sarà giudicato esclusivamente per le sue qualifiche e capacità, cancellando di colpo le corsie preferenziali introdotte a partire da Obama per rendere più “rappresentativa” l’amministrazione. Subito dopo arriva la scure sui dipartimenti e le politiche dedicate all’esperimento sociale chiamato Diversity Equity and Inclusion, che, almeno tra i dipendenti del governo federale, saranno consegnate al proverbiale cestino della storia.
Il decreto più atteso da quei moderati che si sono affidati a Trump, disgustati dall’estremismo dei deliri woke è quello successivo, che si pone due obiettivi che non potrebbero essere più chiari: difendere le donne dall’estremismo dell’ideologia gender e riportare la verità biologica all’interno del governo. Sembra assurdo che l’affermare che esistono solo due generi sia una pietra dello scandalo ma la deriva imposta dai massimalisti sinistrati è stata talmente severa che le cose stanno così.
Il colpo al cuore della mefitica macchina è di quelli importanti ma non sarà decisivo: i globalisti, capito da che parte tirava il vento, stanno già pensionando la sigla DEI, inventandosi metodi più subdoli per portare avanti la loro agenda anti-umana. La speranza è che, almeno all’interno del governo americano, si ritorni al buonsenso. Considerata l’influenza ed i poteri che ha a disposizione, non è poco.
Drill, baby, drill: addio Green Deal
Una delle questioni che potrà causare più sconvolgimenti a livello mondiale è quella del mercato dell’energia, che Trump ha affrontato senza mezze misure. Dichiarare un’emergenza energia sembra una frase fatta ma le conseguenze pratiche saranno quasi immediate: le migliaia di imprese che si sono viste bloccare le richieste di trivellare o costruire oleodotti avranno mano libera a partire dall’Alaska, area in gran parte proprietà del governo federale che dispone di immense riserve.
La mangiatoia dell’eolico, in gran parte dominato da imprese cinesi, ha i giorni contati: non solo saranno sempre meno profittevoli con l’abbassamento del prezzo del petrolio ma saranno bloccati gli enormi parchi eolici offshore, peraltro dannosissimi per gli animali marini. Nessun riferimento immediato alla questione del nuovo nucleare ma resta da capire quali e quanti regolamenti saranno cancellati, cosa che potrebbe rendere fattibile pensare a riaprire impianti dismessi prematuramente o costruirne di nuovi.
L’attacco ai globalisti continua quando si dichiara la Global Tax promossa dall’OECD decaduta ma anche con il blocco di tre mesi di ogni aiuto internazionale e l’intenzione di valutare ogni singola spesa per vedere se favorisca davvero gli interessi americani.
L’abbandono del controverso Accordo di Parigi sul clima e la fine ingloriosa del Green New Deal sono nascosti dietro al sibillino titolo Putting America First in International Environmental Agreements. Anche in questo caso il messaggio ai mandarini del green è netto: non siamo più disposti ad immolare la nostra economia sull’altare della vostra ideologia anti-umana.
Non ci faremo mettere in ginocchio dalle vostre decisioni assurde: per noi contano solo gli interessi degli americani. Detto ancora più succintamente, suona qualcosa come “è finita la mangiatoia” ma forse siamo troppo maliziosi. Il segnale è particolarmente forte in direzione Europa: se volete suicidarvi, fate pure ma sarete da soli. Un messaggio che molti in Europa non vedevano l’ora di ascoltare.
Lotta ai globalisti e libertà di parola
Più complicato giudicare il ritiro degli Stati Uniti dall’OMS, considerato che il governo americano storicamente non è mai stato entusiasta di quest’organizzazione. Le ragioni sono molteplici: dare un contentino a RFK Jr, fare pressione per la defenestrazione del segretario generale fin troppo vicino alla Cina ma anche rinegoziare il pesante conto (500 milioni all’anno) che l’organizzazione presenta a Washington.
Visto che l’internazionale globalista può contare su troppe quinte colonne, Trump mette nel mirino anche i commis della Beltway. Uno tra i decreti che ha attirato meno attenzione si propone di rendere responsabili i burocrati in posizioni apicali, quelli capaci di influenzare l’esecuzione pratica delle politiche del governo.
Il messaggio è fin chiaro: o fate quel che vi dico di fare o vi caccerò a pedate. Più facile a dirsi che a farsi, certo, ma è importante che si metta un freno all’impunità dilagante a Washington, dove spesso i fallimenti degli amici vengono premiati con promozioni.
A far festeggiare i militanti MAGA sono sicuramente i decreti che liberano i circa 1.500 partecipanti agli incidenti del 6 gennaio 2021 che si sono ritrovati in galera per anni talvolta senza aver messo piede nel Campidoglio, ma la misura più significativa è forse quella che si propone di ristabilire la libertà di parola.
Ancora più importante il fatto che venga cancellata la norma approvata da Obama che aveva rimosso il divieto imposto alle autorità federali di dispiegare campagne di propaganda all’interno dei confini dell’Unione, sia dirette che per interposta persona. Il fatto che tutti i proprietari delle mega-corporations di Big Tech fossero presenti all’inaugurazione è un segno che, pur di proteggere i propri profitti, sono più che disposti a genuflettersi di fronte a Trump.
Lotta senza quartiere al Deep State
Che l’intenzione della nuova amministrazione fosse quella di assaltare le rendite di posizione del cosiddetto deep state era più che evidente fin dall’annuncio del DoGE, il Dipartimento per l’Efficienza Governativa ma non è l’unica misura diretta a “convincere” migliaia di burocrati a togliere le tende.
Tre ordini esecutivi costringeranno i dipendenti a tornare in ufficio, cancellando il telelavoro concesso ai tempi della pandemia, cosa che potrebbe essere seguita tra qualche tempo dallo spostamento di parecchie agenzie lontano da Washington. Si stima che qualcosa tra il 25 e il 35 per cento dei dipendenti federali preferirebbe prendersi la buonuscita e riciclarsi come lobbisti o trasferendosi in qualche ong amica piuttosto che subire l’ignominia di doversi trasferire in quella che definiscono sprezzantemente come flyover country.
Visto che furono proprio queste agenzie a remare contro al primo Trump, stavolta l’obiettivo è di limitarne la libertà di movimento: niente assunzioni e, soprattutto, niente nuovi regolamenti fino a quando non sarà completato un esame di tutte le norme per vedere quali sono compatibili con la filosofia del nuovo governo. Sembrano misure procedurali ma, all’interno della Beltway, la forma è sostanza ed i lamenti per i mal di pancia si iniziano già a sentire.
Partenza sparata
Visto che ha già affrontato ogni genere di questione trattata in campagna elettorale, difficile trarre indicazioni precise sulla direzione del secondo mandato di Donald J. Trump tranne che i guanti bianchi e la prudenza sono una cosa del passato. Il tono imperiale, l’ottimismo reaganiano, l’ansia di mettere quanta più carne al fuoco immediatamente è giustificato dal fatto che la squadra di Trump avrà a propria disposizione al massimo diciotto mesi prima che la campagna per le mid-terms renda impossibile qualsiasi riforma significativa.
Le questioni geopolitiche
La differenza tra l’approccio naif del primo mandato e la partenza sparata dai blocchi del Trump 2.0 è estrema, dal giorno alla notte. Il cambio di marcia, però, non si applica a 360°. Sulle questioni geopolitiche, quelle che stanno più a cuore a chi non viva negli Stati Uniti, il silenzio è quasi assordante.
La speranza è che il nuovo Segretario di Stato Marco Rubio, appena confermato dal Senato, stia già iniziando a lavorare sottotraccia per affrontare i problemi più gravi del mondo, dai conflitti in corso alle crescenti tensioni in varie aree critiche del pianeta.
Il guanto di sfida nei confronti dei due nemici dichiarati dei nuovi Stati Uniti, la Cina comunista e l’internazionale globalista, è invece lanciato senza se e senza ma. Il colpo d’avvertimento su Panama, la bordata al Green Deal e le minacce neanche troppo velate alle organizzazioni internazionali non sono solo un tintinnar di sciabole o una carta da giocarsi in una trattativa.
L’élite globalista ha fatto di tutto per eliminare anche fisicamente Trump ma ha fallito. Errore madornale, visto che ha avuto l’effetto di renderlo molto più serio, disciplinato, come se fosse impegnato in una missione divina.
L’ultima volta che un leader di una superpotenza si è lanciato in una crociata ha vinto la Guerra Fredda. Ci vorrà parecchia fortuna perché le cose finiscano così anche stavolta ma una cosa è certa: sottovalutare questo nuovo Trump che fa sul serio, ha fatto i compiti a casa ed ha alle spalle un movimento allargato sarebbe un errore fatale.