Esteri

Sei mesi di guerra in Ucraina: bottino magro per Putin

Fallito il blitz su Kiev, nel Donbass va meglio ma non benissimo. Il ventre molle dell’Occidente sono i Paesi dipendenti dal gas russo che potrebbero rompere il fronte

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Al sesto mese di guerra in Ucraina non possiamo sapere chi la vincerà o come si concluderà. Ma di sicuro sappiamo sempre di più su come è iniziata. Con un errore clamoroso di intelligence dei servizi segreti russi.

Non serve essere esperti di strategia per constatare che la guerra non sta andando affatto bene per la Russia. Nel primo mese, l’Armata cingeva d’assedio (anche se non circondava del tutto) la capitale Kiev e aveva creato grandi salienti a Chernihiv, Sumy, Kharkiv, oltre alla sua avanzata maggiore nel Sud e nel Donbass.

Attualmente i russi sono presenti solo nel Sud e nel Donbass e da due mesi non avanzano più nemmeno su questi due fronti. Solo un propagandista russo può dipingere questo scenario come una vittoria eclatante russa.

La profezia sbagliata

Perché Putin si è infilato in questo pantano? Secondo l’inchiesta di Greg Miller e Catherine Belton del Washington Post (che hanno potuto consultare fonti di intelligence di prima mano e intervistare funzionari statunitensi e ucraini a conoscenza dei fatti), il dipartimento ucraino dell’Fsb ha enormemente sottovalutato la capacità di resistenza dell’Ucraina.

È stata la solita profezia sbagliata, tipica anche dei filorussi nostrani, quella secondo cui, “se Putin vuole prendere Kiev, lo può fare in tre giorni”. Ne erano talmente certi, a quanto pare, che gli agenti dell’Fsb in Russia, negli ultimi giorni prima dell’invasione, erano intenti a cercare case a Kiev, dove abitare in modo sicuro e creare nuove basi.

Un errore simile lo si commette soprattutto se la gerarchia viene temuta più del fallimento. Evidentemente spiegare ai superiori che l’Ucraina era pronta a resistere sarebbe stato pericoloso, avrebbe comportato il sospetto di scarso patriottismo.

I consiglieri sbagliati

Nell’inchiesta del WaPo, leggiamo anche che le figure ucraine a cui gli agenti dell’Fsb facevano riferimento erano l’ultimo presidente filo-russo Viktor Yanukovich (quello deposto dalla rivoluzione di Maidan) e il miliardario Medvedchuk, che in seguito sarebbe stato arrestato in Ucraina.

Da personaggi così, non si può avere visione più distorta della realtà ucraina: ogni ex presidente tende a vedere, nel suo Paese di origine, un popolo che lo ama e lo rivuole, anche se tutte le prove tenderebbero a dimostrare il contrario.

Che i russi abbiano commesso un errore di calcolo nelle prime settimane di guerra, lo dimostra anche il successivo cambio di passo della loro strategia. Non serve nemmeno consultare l’ultima (meritevole) inchiesta del quotidiano statunitense, basta guardare ai fatti di febbraio e marzo.

Il fallimento del blitz su Kiev

L’operazione militare speciale, come tuttora viene chiamata in Russia, è incominciata come un blitz, con un assalto elitrasportato di forze speciali all’aeroporto di Gostomel, a est di Kiev, e una rapida avanzata di colonne corazzate, soprattutto convergenti sulla capitale. Entrambe le operazioni sono fallite.

Erano talmente fragili, nella loro assenza di coperture (aeree, di artiglieria e di fanteria) da presupporre un’assenza pressoché completa di resistenza nemica. Solo dopo sei settimane di stallo e perdite gravi, i russi hanno deciso di ritirare le truppe da Kiev e fronti connessi, lasciandosi dietro una scia di cadaveri (crimini che tuttora negano).

In questa fase del conflitto non c’era alcun piano apparente, né alcun comando unificato, ogni generale di armata riferiva direttamente a Putin. Lo stesso presidente russo, al terzo giorno di guerra, si era esposto esortando l’esercito ucraino a ribellarsi al governo di Kiev. Evidentemente, l’Fsb gli aveva riferito che l’Ucraina fosse in procinto di ribellarsi.

La seconda fase: guerra d’attrito

Quando i vertici russi hanno aggiustato il tiro (per volontà di Putin, del ministro della difesa Shoigu o del comandante in capo Gerasimov, non lo sappiamo ancora), la guerra ha assunto tutt’altro volto: quello della battaglia di attrito, da Prima Guerra Mondiale, in cui l’artiglieria conquista e la fanteria occupa.

L’Armata ha ritirato tutte le truppe dai suoi salienti settentrionali protesi sulla capitale, lasciando Kiev libera di respirare ancora, ma ha mantenuto la pressione su Kharkiv e sul Donbass. A Kharkiv è andata ancora male ai russi, perché alla fine hanno dovuto ritirarsi oltre la frontiera.

Il Donbass

Nel Donbass è andata meglio, ma non benissimo. Si è infatti ben presto fermata l’offensiva più promettente dal saliente di Izyum, da cui l’Armata avrebbe potuto accerchiare il grosso dell’esercito ucraino.

Alla fine, i russi hanno portato a casa due grandi risultati simbolici: la presa di Mariupol (dopo mesi di battaglia) e quella delle città gemelle di Severodonetsk e Lysichansk, ultimi centri abitati della provincia di Lugansk ancora controllati dagli ucraini.

Ma il Donbass è lungi dall’essere “liberato”: agli ucraini restano ancora importanti centri urbani quali Kramatorsk, Slaviansk e Bakhmut.

Il fronte sud

Nel Sud, sia nel settore di Zaporyzhzhya sia (soprattutto) in quello di Kherson, i russi sono sulla difensiva. Nel Mar Nero, dopo l’affondamento dell’incrociatore Mosca, la flotta russa si espone sempre meno. L’Isola dei Serpenti, possibile avamposto per un’offensiva contro il tratto più occidentale della costa, è stata evacuata.

Le perdite umane

Dopo sei mesi di conflitto, insomma, i russi non possono vantare alcun grande risultato, se non quello di aver messo in ginocchio l’economia di un Paese già povero e di avergli inflitto perdite umane ingenti.

A proposito: non sappiamo ancora nulla di preciso sulle perdite delle due parti, ma incrociando le fonti più attendibili con quelle meno attendibili, i russi hanno perso in sei mesi più uomini di quanti non ne avessero persi i sovietici in dieci anni di guerra in Afghanistan.

L’iniziativa passa agli ucraini

Il generale Petraeus, già direttore della Cia, oltre che ex comandante del Comando Centrale americano (e prima ancora responsabile dell’unica campagna di contro-insurrezione di successo in Iraq), ritiene che l’iniziativa stia passando agli ucraini.

“Per la prima volta dall’inizio della guerra – dichiara al Corriere della Sera – gli ucraini ora sembrano aver preso l’iniziativa dal punto di vista strategico, usando i sistemi lanciarazzi multipli americani e altre armi fornite da alleati occidentali, con effetti devastanti: prendono di mira in modo preciso i depositi di munizioni e di carburante russi, i loro quartier generali, le aree per la riorganizzazione delle unità intorno e a est di Kherson”.

Germania, Italia e Francia

Il vero motivo di preoccupazione per l’Ucraina dovrebbe invece arrivare dall’Europa occidentale. Non dall’Occidente in generale, sia chiaro: Usa, Regno Unito, Polonia e Paesi nordici, appaiono più che determinati a continuare a sostenere la resistenza ucraina, costi quel che costi. I Paesi che furono satelliti dell’Urss, soprattutto, vedono nella causa ucraina una lotta per la loro stessa sopravvivenza.

Il problema, semmai, arriverà da quei Paesi che negli ultimi decenni, anche quando erano chiare le mire espansionistiche di Putin, si sono legati mani e piedi alle importazioni di gas russo. Ogni riferimento a Italia e Germania (e Ungheria, nel suo piccolo) non è affatto casuale.

Quando la crisi energetica inizierà a mordere, non tanto con l’abbassamento dei termosifoni, ma con la chiusura di decine di migliaia di aziende, Germania, Italia e altri Paesi minori troppo dipendenti dalle forniture di Mosca inizieranno probabilmente a spaccare il fronte occidentale di sostegno all’Ucraina.

E questo a prescindere dai governi in carica: “porre fine alla guerra per salvare l’economia” è uno slogan troppo ghiotto per non essere colto al volo da qualunque politico, anche per nascondere i problemi strutturali della propria politica energetica.

Poi c’è sempre la variabile Francia, che grazie alle sue centrali nucleari è indipendente dal gas russo, ma sente la necessità politica di “distinguersi” dagli Usa e dal Regno Unito. E lo dimostrano, già ora, le decine di infruttuosi contatti di Macron con Putin, prima e durante la guerra.

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