Archiviato l’ottantesimo anniversario della Liberazione, messo in sordina dallo strascico mediatico seguito alla morte del Pontefice romano, restano le immagini delle inopportune manifestazioni Pro-pal, e le parole del presidente Sergio Mattarella: “È sempre tempo di Resistenza”, che paiono evocare il mito della rivoluzione permanente e istituzionale, in un ossimoro dal vago sapore populista e sud americano, che mal si conciliano con l’austera ed un po’ scialba figura del presidente.
Eterno frontismo
Quando il segretario del Pd Elly Schlein proclama: “Viva l’Italia antifascista” e non “viva l’Italia libera”, compie una precisa scelta di campo: quello dell’eterno frontismo. Ancora riecheggiano le parole di Giovanni De Luna che, oltre dieci anni fa scrisse:
Il 25 aprile non è mai stata una data monumentale. Non ha mai conosciuto quella dimensione celebrativa che caratterizza il 14 luglio in Francia o il 4 luglio negli Stati Uniti. Il Giorno della Liberazione è una memoria inquieta, al centro di interrogativi che ne impediscono l’imbalsamazione.
Che sia un invito al movimentismo permanente, evocato solo pochi giorni fa da Mattarella? Parole al vento. Ricordo con una certa nostalgia le celebrazioni del 25 aprile degli anni Ottanta: una liturgia antica ed indolore (come una messa officiata in latino), con gli ultimi sopravvissuti, di alto grado, esposti al pubblico come reliquie viventi di un passato destinato all’oblio e viatico di una pacificazione cronologicamente inevitabile. No! Non è andata così, ed ora, morti praticamente tutti i contemporanei, il 25 aprile, oltre ad essere la festa delle teorie evolutive del fascismo, non vuole essere una vera festa della “Nazione”.
Diventa persino ozioso ricordare come in un passato, neanche troppo remoto, il 25 aprile era un giorno “della memoria”, che non può essere universalmente condivisa, e non un “famo casino day”, utilizzando una felice espressione di Travaglio che riteneva errata ed inutile la presenza in piazza degli “amici dei palestinesi” e non quella della Brigata Ebraica, per ragioni storiche ormai assodate e che solo la cecità ideologica può negare.
Lo studio sostituito dalla narrazione
Proponendo un differente approccio alla conoscenza delle ragioni che sottendono il ricordo del 25 aprile, non è privo di significato notare quanto siano scaduti – credo volutamente e per ragioni editoriali – in basso gli studi sul fascismo e l’antifascismo. Lo studio è stato sostituito dalla narrazione e ad una cattiva, ed affabulante, narrazione segue, inevitabilmente, la formazione di una memoria distante dalla storia.
Se si osservano le vetrine delle librerie, ecco venire esposti come panoplie di una nuova coscienza civile le fatiche editoriali di Cazzullo, Scurati, della Murgia e di tanti altri che non propongono “analisi”, ma “letture” del fenomeno fascismo. Che valore storico (e morale) ha una pubblicazione come “Il capobanda”? Assolutamente nessuna.
La teoria apodittica di Aldo Cazzullo si concentra nelle prime righe: l’Italia era caduta “nelle mani di una banda di delinquenti, guidata da un uomo spietato e cattivo. Un uomo capace di tutto; persino di far chiudere e morire in manicomio il proprio figlio, e la donna che l’aveva messo al mondo […] Aveva conquistato il potere con la violenza – non solo manganelli e olio di ricino ma bombe e mitragliatrici –, facendo centinaia di vittime”. Che tutta la storia del fascismo possa essere derubricata come una storia di gangster? Offensivo, innanzitutto per le vittime stesse del fascismo.
Se si dice che il Duce fu maschilista e misogino, bisognerebbe ricordare che la società dell’epoca era tanto maschilista e misogina quanto il duce. Cattivo padre? Beh, cosa fu Togliatti verso suo figlio Aldo? Tragica storia quella del figlio de “il Migliore”. Ciò nonostante non può essere questa la chiave interpretativa della storia del partito comunista della clandestinità e della Liberazione. Ecco che il libro appare come un testo inutile e dannoso, ciò nonostante Cazzullo viene presentato come un profeta di una nuova coscienza civile.
Eguale sorte Scurati che, eternamente vestito di nero e con il volto sempre contrito e severo -come una brutta copia del venerabile Jorge de “Il nome della Rosa” – ha dato vita ad un’opera di scrittura creativa (quindi storicamente inesistente, in re ipsa) di grande successo e letta come se fosse un trattato storico, scritto in modo accattivante. Il fatto che l’autore citi a piè di pagina documenti non significa nulla: basta scegliere le fonti ed il gioco è fatto!
Tutti testi di divulgazione disonesta che non indagano nel profondo il fenomeno, sia perché la ricerca è “faticosa”, sia perché la ricerca “onesta”, non raramente getta squarci di luce, laddove è meglio lasciare l’oscurità. Eppure la superficialità della descrizione del “fascismo” (e dell’antifascismo) proposta da questi ultimi autori fanno a botte – ad esempio – con i contenuti delle lezioni sul fascismo che Togliatti tenne, nel 1935 a Mosca, agli esuli italiani. Il fascismo era un regime autoritario, ma “di massa” e le ragioni del suo successo non si basavano sulla mera violenza, ma su ben diffusi ed onesti consensi.
Il coraggio di Amendola
Se la pubblicistica sul fascismo e sull’antifascismo, sterminata in questi ultimi ottant’anni, ha visto sin dalle origini dare alle stampe una pletora di pubblicazioni, che ancora affollano (come unici presenti) gli inutili istituti della storia della Resistenza, che nella grandissima parte sono ripetitive come testi liturgici, in una ricostruzione ex post della memoria, vi sono stati autori, anche di estrazione politica, che non hanno guardato in faccia nessuno, se non i fatti e la propria coscienza.
Si prendano ad esempio due autori soli: Giorgio Amendola e Renzo De Felice. Il primo, protagonista assoluto dell’antifascismo e del Partito Comunista scrisse, insieme a Piero Melograni, un libro-intervista intitolato appunto “Intervista sull’antifascismo” (Laterza, 1976), dove il leader comunista romano compì una analisi originale e forse anche spregiudicata dell’antifascismo, per coglierne al di là e nonostante gli enormi meriti storici, anche i limiti politici e culturali.
Nel contempo – sulla scorta delle analisi di Togliatti a Mosca – affermò che “nessuno comprese che cosa era il fascismo, l’originalità di questo movimento di massa”. Altro che banda di gangster! Parimenti egli, nei primi anni Ottanta (in periodo, ancora, di terrorismo), ebbe a rubricare i “fatti” di via Rasella – di cui fu uno degli organizzatori – come atto terroristico, mentre una certa storiografia contemporanea, usa ad edulcorare la storia, rifiuta quel termine e parla di quell’episodio come di legittima operazione militare… semantica! Terrorismo e azioni militari legittime possono convivere!
Vi sarebbe da chiedersi, perché la storiografia di “sinistra”, da allora, abbia rinunciato a guardare la storia, dritta negli occhi. La risposta è nell’ottenuta egemonia intellettuale dell’azionismo (la più moralistica espressione politica italiana) all’interno dei partiti di sinistra. Quindi la storiografia deve tradursi in una eterna testimonianza etico-politica che non può che sfociare in una proposta predefinita.
La colpa di De Felice
Proprio questa nuova egemonia intellettuale ha prima ostacolato e, post-mortem, messo la sordina ai lavori del secondo autore: Renzo De Felice. Egli che spese tutta la sua vita intellettuale a studiare il fascismo, con il rigore di una ricerca che può creare “sorprese”, venne sottoposto ad attacchi pieni di livore.
Ad esempio, nel 1975, all’uscita de “Intervista sul fascismo” (Laterza) dove l’autore distingueva un “fascismo-movimento”, espressione dei ceti medi emergenti e portatore di forti istanze di rinnovamento, da un “fascismo-regime”, prodotto dei compromessi con i poteri tradizionali, Nicola Tranfaglia, dando voce anche ad opinioni di Valiani, scrisse: “inutile usare perifrasi: ci troviamo per la prima volta in maniera chiara e univoca dopo il 1945 di fronte a una completa riabilitazione del fascismo, compiuta da uno storico che non è di origine fascista, che occupa una cattedra nell’Università di Roma e pubblica i suoi libri presso due tra le maggiori case editrici della sinistra italiana”.
La colpa degli studi di De Felice, incontestati per la sua ricchezza di fonti è stata, usando le parole di Dino Cofrancesco, “quella di essere un capitolo fondamentale della storia della cultura politica italiana del nostro tempo giacché, indirettamente, ne mostrano i ritardi e le anomalie, a cominciare dall’incapacità di prendere sul serio il pluralismo, riconoscendo che i valori, gli interessi, i bisogni che costellano il mondo umano sono molteplici e che demonizzare, senza comprendere, porta solo alla perpetuazione della guerra civile”.
Di conseguenza, “l’opera di De Felice è stata quasi del tutto rimossa e la sua alta lezione di liberalismo è stata immiserita e ridotta al banale apprezzamento della sua – pur indubbia – obiettività storiografica”. Lo studio della storia è stato sostituito dalla narrazione. Il futuro è dei Cazzullo e Scurati. I barbari non sono più alle porte, hanno già preso il Campidoglio.