Politica

La destra non può dirsi antifascista, finché l’antifascismo è quello del Pci

Prima il Pd abiuri il suo rozzo antifascismo di ieri, altrimenti si accontenti del “non siamo fascisti o nostalgici del fascismo”

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Se il classico marziano di passaggio avesse scorso i giornali in circolazione nella settimana del 25 aprile, sempre che fosse giù uso alla distinzione fra fogli di “sinistra” e di “destra”, si sarebbe trovato di fronte ad un interrogativo, come mai i primi si dichiarassero disponibili a perdonare ai secondi un passato radicato nel Ventennio se si fossero dichiarati antifascisti ed i secondi fossero pronti a rinnegare tutto di quel passato in modo netto e radicale, ma non a farlo qualificandosi tali, cioè antifascisti.

Il fatto è che nonostante tutto non è mai esistito un significato univoco di antifascismo, essendo evidente che l’interrogativo rinvia per la sua soluzione al significato dato alla parola nel contesto, quale assunto una volta caduto il regime.

Le parole d’ordine del PCI

Ora non deve essere dimenticato, specie da chi ha vissuto nell’immediato Dopoguerra che, una volta risolto il confronto fra Dc e Pci nel fatidico 18 giugno 1948 – che non per nulla ebbe come fattore determinante del risultato nettamente a favore dello scudo bianco crociato il golpe comunista in Cecoslovacchia – il Pci si trovò completamente isolato in uno scenario mondiale consacrato nella divisione in blocchi contrapposti: quello occidentale, su cui si assestò l’Italia, quello orientale per cui parteggiò il Pci, mantenuto fuori dai governi via via succedutosi in forza della cosiddetta conventio ad escludendum.

Questi reagì elevandosi a promotore di pacifismo che aveva come nemico l’imperialismo americano, e di un antifascismo che aveva come bersaglio un arrembante capitalismo fortemente connotato in senso repressivo, tenendo il Paese in un continuo stato di allarme per il presunto duplice rischio sempre incombente di un conflitto nucleare provocato dagli Usa, sotto l’ipocrita facciata della Nato, o di un rigurgito autoritario, favorito dallo stesso apparato statale.

Pacifismo ed antifascismo, le due parole d’ordine legate e declinate in modo inscindibile che possono ben spiegare la marcia pluridecennale del Pci all’interno delle istituzioni, fino a quando il crollo plateale dell’intero blocco sovietico non lo costrinse ad uscire allo scoperto. Non più con un progressivo ma sempre prudente distanziamento da Mosca, ma con uno strappo deciso, fino al cambio dello stesso nome che appariva troppo legato al passato, sostituendo come padre nobile Enrico Berlinguer a Palmiro Togliatti.

Il pacifismo non si è salvato

Non si è salvato niente del vecchio pacifismo, tanto che il Pd è ormai un più che strenuo sostenitore della Nato, anche se la vorrebbe più indipendente dagli Usa, senza peraltro voler pagare lo scotto di un costoso riarmo; nettamente schierato nel fronte favorevole alla fornitura delle armi in Ucraina; ben inserito nel gruppo socialista del Parlamento europeo.

Per chi, carico d’anni come il sottoscritto, ricorda visibilmente la forte opposizione del Pci al piano Marshall, alla Nato, alla nascente Comunità europea, tradottosi in scioperi generali promossi da una Cgil allora cinghia di trasmissione del partito, non può che sorprendersi dell’entità del rovesciamento totale operato nella politica estera, cui fa da pendant una politica interna basata sull’accettazione delle regole di un mercato comunitario.

Resta solo l’antifascismo

Quantum mutatus ab illo. Come di rimbalzo l’accento propagandistico è caduto tutto sull’antifascismo, che ha accompagnato il deciso rafforzamento elettorale del centrodestra, con a partito guida quei Fratelli d’Italia che, se partoriti da una costola del Movimento certo non giustifica il grido di allarme “il fascismo alle porte”, ridottosi sostanzialmente nel prender spunto per una gogna mediatica da qualsiasi parola o espressione della leader o dei suoi ministri capace di essere considerata “voce dal sen fuggita”, espressiva di una perdurante simpatia nostalgica per il Ventennio.

Di qui l’invito pressante anzi ossessivo del Pd, con tutti i suoi corifei mediatici a pronunciare un corale “siamo antifascisti“, ritrovando unità di spirito e di corpo che, secondo l’agiografia resistenziale, avrebbe animato i partigiani di ogni colore, comunisti, socialisti, cattolici, laici, perfino monarchici.

Quale antifascismo

Quale antifascismo? Quello coltivato e praticato dal Pci fin dal Dopoguerra, tutto centrato sul falso rimasto attuale di una liberazione effettuata non dalle truppe alleate, ma dai partigiani in prevalenza comunisti, con uno scenario futuro, che, una volta ottenuta la libertà per cui si combatteva e si moriva, avrebbe dovuto sfociare se non in una dittatura del proletariato in una “democrazia” simile al modello delle democrazie popolari dell’est Europa.

Oggi “siamo antifascisti”, con una formula riecheggiante al contrario “siam fascisti”, sembrerebbe dar ragione a quell’antifascismo che il Pci ha varato e nobilitato come un patrimonio di proprietà esclusiva, dal Dopoguerra a tutt’oggi, servendo a dargli una continuità di fondo, al di là della radicale discontinuità di collocazione internazionale ed interna.

Prima il Pd abiuri il suo rozzo antifascismo di ieri, altrimenti si accontenti di “non siamo fascisti o nostalgici del fascismo”, perché quell’antifascismo d’antan serve solo a rivitalizzare un anticomunismo altrettanto rozzo pur esso d’epoca.

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