Il vero problema dei pensatori di successo è la presunzione di saperla più lunga dei loro interlocutori, poiché pretendono di azzeccarla giusta su cosa accadrà domani o fra qualche anno in un determinato scenario geografico. Viviamo nell’era del “io ve l’avevo detto” più che quella del “non omnia possumus omnes”.
E il mancato riconoscimento dei nostri limiti individuali, unitamente al mancato riconoscimento della trascendenza del caso, conduce fatalmente a gravi errori e perdita di autorevolezza per i troppi che vogliano dare pubblica risposta a qualsiasi domanda. Sembrerebbe questione secondaria, ma non lo è affatto.
Potremmo dire che tra le massime aspirazioni personali trionfi quella di essere intervistati e che i responsi “facciano stampa”, se non storia. Indipendentemente dal fatto indiscutibile che chiunque, anche un premio Nobel, possa talvolta dire sciocchezze, se ci fosse il solito marziano (figura retorica alla quale faccio spesso riferimento, in compagnia del mio citatissimo somaro) a guardarci da vicino, non potrebbe che invitarci ad un salvifico e corroborante silenzio, sempre ammesso che si voglia salvare una faccia ormai irriconoscibile per gli orpelli imposti dalle mode del momento.
Risposte declinate al futuro
Dal giornalismo (o ciò che ne rimane) alla politica (se questa lo è ancora), tutti sembrano talmente impegnati a coniugare i verbi al futuro da trascurare un presente che del futuro è il presupposto irrinunciabile. L’immancabile risposta di ogni governante (centrale o locale che sia) a imbarazzanti domande fatte da intervistatori a pelo lungo o pelo corto (cit. Daniele Capezzone) è quasi sempre riferita al futuro, ossia a quanto si dichiari essere in agenda, più che a limitarsi a quell’evangelico “sì sì, no no” che dovrebbe essere la linea di confine tra chi abbia fortemente voluto essere nella privilegiata posizione dell’intervistato e sia capace di rispondere a chiunque e quelli che, non avendo tale capacità, preferiscano non esprimersi.
All’entrata del Parlamento metterei la scritta “Noblesse oblige”, lapidaria e impegnativa per chiunque venga pagato per rappresentare almeno quell’aliquota dei loro elettori, comunque facenti parte del popolo sovrano. Ricordare ai parlamentari – ma ci metto volentieri anche sindaci, governatori di Regione e persino segretari di sindacati – che le cariche elettive, oltretutto più che degnamente retribuite, obbligano al rendiconto costante delle loro opinioni e sui loro programmi, rinunciando alle scappatoie praticabili dalla gente comune.
Non ci si ritiene all’altezza di dare risposte quantomeno decenti? Nemmeno ci si candidi. Fare il parlamentare è forse l’unico mestiere che non s’impari con la pratica. Sarebbe come affidare un’auto da corsa a chi non abbia nemmeno la patente e gli si consenta d’esercitarsi nella guida in un piazzale affollato. Esattamente la stessa cosa. Possiamo essere indulgenti con chi sia nessuno, ma non per le persone importanti: un principio che troppi dimenticano, la bicicletta tanto agognata, con o senza pedalata assistita, per ottenere la quale sicuramente si sia fatta qualche scorrettezza con qualcuno. I fini giustificano i mezzi di trasporto.
Ipertrofia legislativa
Considerate le qualità morali minime, il livello culturale e la dignità complessiva di certi parlamentari, pur non potendosi pretendere un Parlamento composto da avvocati, professori e industriali come fu per buona parte del secolo scorso, lo spettacolo è sconsolante.
Lo si dica: fu proprio la “Costituzione-più-bella-del-mondo” ad essere maggiormente ispirata al socialismo che al liberalismo nel sancire i nostri principi fondamentali e, se questo ne è il risultato, questa sia l’immagine che offriamo al mondo, quantomeno non dovremmo stupirci della pletora di leggi inutili o risibili, non di rado espresse con costruzioni sintattiche e grammaticali da matita blu, che abbiamo da qualche anno in qua.
A legiferare siamo i più attivi al mondo e non è un bel record. Di leggi ne sforniamo così tante da essere poi obbligati a cancellarne a mazzi ogni tanto. L’ipertrofia legislativa è una nostra peculiarità perché tutti vogliono fare i parlamentari o i giudici, lasciatemelo dire.
Che, poi, l’appetito venga mangiando (più e meglio dei loro sottoposti) ed ecco succede che per dare prova di meritare la carica e lo stipendio derivante, indovinate che fanno? Nuove leggi, nuove regole e nuove tasse che le supportino. Winston Churchill era solito dire:
Io affermo che quando una nazione tenta di tassare se stessa per raggiungere la prosperità è come se un uomo si mettesse in piedi dentro un secchio e cercasse di sollevarsi per il manico.
Anche in questi giorni si risente parlare dell’imminente abolizione di centinaia di disposizioni di legge ritenute obsolete o inapplicabili. Bravissimi. Ma non si portino come esempio della necessità di “svecchiare” le norme il Codice Civile (1942), il Codice Penale (1930) e il Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza (1931), ossia le ormai traballanti colonne portanti della nostra civiltà giuridica.
Pensate a quanto certi parlamentari e certi giuristi riuscirono a fare negli anni più difficili della Seconda Guerra Mondiale, formando un Codice Civile, i cui principi di base ancora reggono benissimo gli anni. Quello sì, è tra i più efficaci al mondo! Di cosa sarebbero capaci i nostri espertoni che regolamentano l’uso del monopattino oppure le etichette dei grissini? Dio non voglia che mettano mano a certa legislazione fondamentale, così come stanno emendando in continuo una Costituzione che pure a loro piace tantissimo, al punto dal sentirne necessaria una modifica ogni tre per due. Ridateci lo Statuto Albertino! Almeno era scritto in italiano e non conteneva termini stranieri dal significato dubbio e tutt’altro che univoco.
Non illudiamoci: di leggi di cui non se n’avvertisse mancanza, ne faranno ancora a centinaia ogni anno, consimili a quelle abrogate, e ciò accadrà per una serie di motivi, primissimo tra i quali il fatto che quelli che di legge e di leggi ne capiscano davvero, e per mestiere, sono sempre meno a Roma, mentre aumentano i propagandisti dallo slogan facile, gli espertoni dal curriculum imbarazzante e gli eurolirici (altra cit. D. Capezzone).
Ma chi li ha candidati?
Difficile tollerare che sempre più illetterati, trasformisti, disoccupati e profittatori di varia natura si occupino di formare le leggi ed imporcele. La funzione legislativa è del Parlamento, al netto del crescente e controverso utilizzo dei provvedimenti di legge governativi. Eppure accade, con buona pace di tutti e degli stessi partiti, che non disdegnano affatto candidare ex imprenditori decotti, cantanti e sportivi sicuramente autorevoli nei loro rispettabilissimi ambiti di provenienza ma del tutto superflui, se non dannosi, a Montecitorio, Palazzo Madama o a Bruxelles.
Alla fine, permettetemi di rimanere terra-terra, come sono solito fare. Ma perché non ci si pone mai la domanda, declinabile in forme più o meno eleganti che vanno dal “Ma chi cazzo lo ha candidato questo?” al più sofisticato “Forse v’è stata una sopravvalutazione attitudinale del candidato”?
Ma chi li ha votati?
Non parliamo nemmeno di chi diavolo li abbia votati, perché apriremmo un discorso lunghissimo e irto di tranelli interpretativi squisitamente inerenti al diritto elettorale, facenti comunque capo a un sistema elettorale ibrido come quello in vigore, ossia un pastrocchio che non accontenta nessuno e che persino obbliga a mutare ad hoc la norma costituzionale, piuttosto che adeguarvisi.
Sia sufficiente un dato di fatto: la stragrande maggioranza degli elettori vota un partito e, con esso candidati prestampati sulla scheda, anche del tutto sconosciuti e operanti in zone lontanissime da quelle del votante. Per non parlare delle coalizioni elettorali, che riuniscono in una variopinta congerie di gente che da dirsi ha proprio nulla, costretti a stare insieme per andare a Roma o a Bruxelles. Bella roba….