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Biden esecutore dell’agenda radicale, ma stavolta la identity politics fa infuriare le femministe

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Uno dei primi provvedimenti del neopresidente Joe Biden ha sollevato accese proteste da parte di molte femministe americane, comprese alcune facenti parte da sempre dei gruppi più progressisti e “radicali” schierati a tutela dei diritti del gentil sesso. Com’è possibile tutto questo? si chiederà il lettore. Forse che l’uomo politico democratico già sostenitore dei diritti e promotore della dignità di tutte le persone in qualche modo socialmente e giuridicamente svantaggiate, comprese ovviamente le donne, si è improvvisamente trasformato in un presidente maschilista, capace di passare sopra senza troppi riguardi alle legittime rimostranze femminili?

Nulla di tutto questo. Anzi, potremmo dire che le proteste delle femministe per la lesione di quelli che loro considerano, a ragione, dei diritti fondamentali delle donne derivano proprio dalla coerenza del presidente Biden con i principi del politicamente corretto, una coerenza portata alle sue estreme conseguenze. La spiegazione di questo apparente paradosso sta in un elementare principio della logica e persino della matematica, quello in base al quale due negazioni affermano, un principio tanto stringente che nonostante tutta la fiducia quasi “messianica” nei dogmi oggi tanto di moda che impongono di “non discriminare” nessuno, e nonostante tutta la propaganda, mediatica e non, a favore degli stessi non si può evitare di scontrarsi con esso, dal momento che inevitabilmente due divieti di discriminare uniti insieme, se non armonizzati tra loro, portano ad una discriminazione effettiva ai danni di molte persone spesso per alcuni aspetti peggiore di quella che si verificherebbe se i entrambi i divieti non esistessero.

Ma perché il discorso non sembri troppo astratto, veniamo al provvedimento di Biden. Tra i primi atti adottati dopo la sua entrata in carica il presidente ha emanato un “ordine esecutivo”, cioè una specie di circolare non avente forza di legge, ma vincolante per tutte le strutture pubbliche dipendenti dal governo federale degli Stati Uniti, nonché idonea a condizionare l’operato degli enti finanziati direttamente o indirettamente dalle stesse (tra cui molte università ed associazioni che gestiscono attività sportive), che vieta le discriminazioni basate sul “genere” nello sport. Il provvedimento di per sé non è come detto vincolante come una legge vera e propria, ma le femministe insorte contro di esso temono non a torto che esso porti in maniera “soft” ad una graduale ammissione alle competizioni femminili degli esseri umani fisicamente maschi che affermano di considerarsi femmine, quali i transessuali o i “transgender”. Con il risultato facilmente prevedibile che sarebbero proprio questi ultimi ad aggiudicarsi pressoché la totalità delle competizioni. Coloro che, come chi scrive, sono ormai diversamente giovani ricorderanno che a cavallo tra gli anni ’70 e gli anni ’80 molte gare olimpiche femminili (soprattutto nei settori del nuoto e dell’atletica leggera) erano dominate dalle concorrenti dell’allora Germania dell’Est, molte delle quali, quasi certamente imbottite di ormoni e di altre sostanze proibite, sfoggiavano dei fisici decisamente mascolini, tanto che qualche puro dello sport sentenziava: “Solo a guardarle sarebbero da squalificare.” Oggi, se l’ordine del presidente Biden fosse portato alle sue ultime conseguenze non sarebbero più necessari gli ormoni: per fare incetta di medaglie e di riconoscimenti, in denaro e non (si pensi al sistema delle borse di studio universitarie legate allo sport, molto diffuso negli Stati Uniti) alle concorrenti transessuali e/o transgender basterebbero i muscoli donati loro da madre natura. Qualche femminista ha affermato, forse esagerando un poco (ma non troppo) che questo provvedimento porterà alla “fine dello sport femminile.”

L’argomento di per sé è in apparenza “leggero”, e in un’altra epoca dominata da diversi principi culturali, forse si sarebbe addirittura prestato a fare da soggetto per un film di genere umoristico. Ora che purtroppo il senso dell’umorismo e la battuta comica vengono sempre più sostituiti dal sarcasmo e dalla ricerca del modo migliore di coprire di ridicolo chi la pensa in maniera diversa, questa strada sembra preclusa. In ogni caso, a parere di chi scrive, di per sé il provvedimento di Biden non va sopravvalutato nel suo contenuto: in un sistema quale quello americano la soluzione del rapporto tra i diversi diritti individuali in conflitto tra loro spetta ai giudici, cioè agli operatori del diritto e non ai protagonisti della politica. Alle singole donne che si sentiranno lese nei loro diritti a gareggiare e più in generale a fare sport (si pensi al delicato problema dell’uso degli spogliatoi comuni) solamente insieme a persone fisicamente appartenenti allo stesso sesso e alle istituzioni universitarie e/o sportive che vorranno sostenere tali principi non mancheranno certo le occasioni né le possibilità, grazie all’appoggio di studi legali, think tanks e altre strutture sociali, di fare valere in giudizio le loro posizioni, e probabilmente sarà l’esperienza giuridica fatta di decisioni sui casi singoli a definire i limiti reciproci dei diritti dei diversi soggetti (le persone fisicamente femmine e le persone transessuali e/o transgender).

Di fronte all’ordine esecutivo del presidente rimane però l’impressione, sia detto con tutto il rispetto, di una scelta contraria alle regole più elementari della logica, e soprattutto contraria al buon senso, quel buon senso che, come sostenuto dalla tradizione del pensiero illuminista scozzese (da Adam Smith ad Adam Ferguson) rappresenta la fondamentale pietra di paragone in relazione alla quale si devono sempre valutare le scelte umane. Viene da chiedersi come sia possibile che un politico di lunga esperienza come Biden, considerato tutto sommato un moderato all’interno del Partito democratico abbia potuto prendere una tale decisione, e più ancora a monte come sia possibile che i suoi collaboratori, tra i quali certamente figurano studiosi ed esperti di valore, gli abbiamo suggerito o abbiano comunque avallato tale scelta. Una spiegazione può trovarsi nella sempre maggiore diffusione tra le classi dirigenti occidentali (comprese quelle politiche) di una mentalità portata a declinare in senso sostanzialmente negativo gran parte dei valori etici, sociali e politici, una mentalità in base alla quale ad esempio più che garantire l’eguaglianza tra le persone non si devono creare differenze tra le stesse, più che promuovere l’inserimento degli immigrati non si deve respingere nessuno, più che tutelare le scelte di vita individuali non si deve imporre nulla a nessuno. Questo rovesciamento in negativo dei valori anche di quelli più nobili, nel quale è presente una componente che possiamo a ragion veduta definire “nichilista”, la quale mira a considerare solo gli (inevitabili) aspetti negativi della realtà umana individuale e sociale, cioè per così dire solo la parte vuota del bicchiere anche quando lo stesso è pieno quasi sino all’orlo, rappresenta forse uno dei più grossi pericoli per il futuro sviluppo della civiltà occidentale secondo le “linee guida” liberali e democratiche ereditate dalla tradizione cristiana.

Non sembri un’esagerazione quanto appena detto: l’ordine del presidente Biden rappresenta un campanello di allarme perché la visione della società basata sui valori declinati in negativo, anche se mira a tutelare la situazione soggettiva di ciascuno, finisce al contrario per distruggere i singoli individui in quanto tali perché li incasella in una sorta di scala crescente di discriminazioni (una scala peraltro stabilita d’autorità da gruppi di soggetti più o meno “illuminati”) dove la tutela di ciascuno dipende dalla posizione occupata nella scala stessa e dove i suoi diritti ed obblighi non gli appartengono come propri ma sono variabili in relazione agli altri gruppi, e alla posizione che questi ultimi a loro volta occupano tra i discriminati (reali o ritenuti tali dai suddetti “illuminati”). Così, ad esempio, in base a questa visione delle cose, le donne vengono tutelate verso gli uomini che si considerano maschi, ma non verso gli uomini che si considerano transgender; questi ultimi sono difesi nei confronti delle persone di cultura occidentale ma non verso gli integralisti islamici che in base ai loro principi li condannerebbero a pene infamanti se non addirittura alla pena capitale; i cittadini di colore possono biasimare anche aspramente per vari motivi i cittadini bianchi ma non possono criticare in alcun modo gli immigrati clandestini, e gli esempi di questa sorta di relativismo negativo potrebbero continuare. Se dovesse prevalere questo modo di ragionare, la vita civile rischierebbe di frantumarsi in una serie di “nicchie” umane e sociali più o meno protette da regole particolari a seconda delle caratteristiche dei singoli gruppi di appartenenza definiti ancora una volta in negativo (soggetti non occidentali, soggetti non bianchi, soggetti non sessualmente univoci, soggetti non maschi ecc.) e queste regole finirebbero per sostituirsi a quelle che “in positivo” disciplinano (certo in maniera imperfetta, talora discriminatoria e ingiusta, ma il bicchiere è di gran lunga più pieno che vuoto) le relazioni tra gli esseri umani.

La più grande realizzazione culturale della storia occidentale è stata senza dubbio la “invenzione” dell’individuo in quanto tale come figura centrale dei rapporti sociali e dello stato come comunità politica degli individui, due realtà che non potrebbero esistere l’una senza l’altra: fuori della cultura occidentale quasi sempre tutti gli aspetti dell’esistenza dei singoli sono soggetti alle regole inderogabili dei gruppi (familiari, tribali, di comunità religiose e/o di mestiere) cui gli esseri umani appartengono per nascita e da cui non possono staccarsi se non a pena di sanzioni pesanti e spesso della “morte civile”, e quasi sempre gli stessi gruppi gestiscono come cosa propria il potere pubblico (nonché le attività economiche più importanti). Il concetto di individuo, che consente di unire tra loro le esigenze della eguaglianza tra gli esseri umani e quello del rispetto delle diversità personali, è stato elaborato con fatica (nonostante molte incertezze, contraddizioni, passi indietro e fallimenti) prima dalla tradizione cristiana occidentale e poi dal pensiero liberale moderno ed è sempre stato la bandiera dei sostenitori delle battaglie classiche per i diritti civili, particolarmente negli Stati Uniti: si pensi al “sogno” di Martin Luther King jr. di una società dove le persone siano valutate “per il contenuto del loro carattere”.

Buttare a mare, in nome della tutela “in negativo” dei diversi gruppi “identitari”, tutta questa tradizione che porta a valorizzare l’essere umano in quanto tale proprio perché si rispettano le differenze tra le persone basate su realtà umane e sociali oggettive, finirebbe per creare danni enormi a tutti, compresi coloro che si vorrebbero tutelare. Il provvedimento del presidente Biden è preoccupante non tanto per il suo contenuto in sé quanto per la mentalità di cui dimostra di essere espressione, una mentalità che può portare a risultati pericolosi per le società occidentali, particolarmente se ripresa in quei Paesi (compreso il nostro) dove non sono presenti i freni “forti” di tipo giuridico agli eccessi del potere politico propri della cultura anglosassone e americana in particolare.