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Brexit: prime crepe nell’Ue, la ritrovata centralità britannica e un ruolo atlantico per l’Italia

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Hai voglia a spazzare la polvere sotto il tappeto. Il negoziato Brexit sta facendo emergere tutte le tensioni immanenti all’architettura dell’Unione Europea. La sensazione è che per Bruxelles sia iniziato il conto alla rovescia. O si cambia, o si muore. Sull’assetto dei futuri rapporti commerciali tra Uk e Ue si ravvisa una divergenza tra le posizioni di alcuni stati membri e la posizione della Commissione. Se Amsterdam, Dublino e Lussemburgo vogliono includere i servizi finanziari in un futuro accordo di libero scambio, Michel Barnier si è pronunciato per l’esclusione. Ma la linea Barnier è la linea franco-tedesca, che mira a frammentare la City per importare banche ed investitori internazionali a Parigi e Francoforte. Il conflitto d’interessi è sempre più evidente. I governi dell’Eurozona sono debitori delle banche del Miglio Quadrato per 3,3 trilioni di euro e consapevoli che mantenere in Europa il mercato internazionale dei capitali, sebbene consolidato a Londra, è un fattore di stabilità economica per l’intero continente, che riduce il cost of funding per tutti gli Stati membri, e consente al tempo stesso gestione e monitoraggio del rischio sistemico. Ma ormai, l’Ue è sempre più una burocrazia senza legittimazione politica, piegata all’interesse nazionale franco-tedesco. In questo non è difficile scorgere l’inizio della fine. Dover sopravvivere cercando maggioranze a geometrie variabili su temi strategici o geopolitici è evidentemente un modello non sostenibile.

E difatti, anche l’altro tema, tutto politico, è ora drammaticamente sull’agenda. Davos ha fatto emergere una crisi d’identità. Se l’Ue nel corso della sua storia ha sempre seguito un percorso parallelo agli Stati Uniti d’America, costituendo con gli Usa il blocco delle democrazie occidentali, Angela Merkel è andata allo strappo. La cancelliera tedesca si è smarcata da Washington e persegue un ruolo internazionale per l’Europa non più necessariamente atlantico. La Casa Bianca ha parlato apertamente di guerra commerciale. Ed in effetti, la Germania continua a trascinare un surplus commerciale pari al 9% del Pil in diretto attacco al bilancio federale americano.

In questo scenario, l’Italia è il vaso di coccio tra i vasi di ferro. Mantenere la linea scelleratamente europeista della sinistra massimalista, significa consegnare il paese alla colonizzazione economica di Parigi e Berlino e rompere con l’alleato economico e militare di sempre. L’equidistanza non è possibile. L’ambiguità ancor meno. Lo sciagurato pangermanesimo della kanzlerin impone all’Italia di fare scelte nette di politica estera che rendono non più procrastinabile esprimersi sul futuro assetto istituzionale dell’Ue. Se il Piano Juncker dovesse passare, l’Italia si troverà ad essere vassalla in Europa e irrilevante per gli Usa, cristallizzando usque ad finem il processo di declino. E’ invece necessario cogliere l’opportunità per ritagliarsi un ruolo nuovo, influente, in Europa. L’Italia deve essere la voce più risoluta per riportare la linea politica europea nel naturale alveo atlantico. Roma deve lavorare su forti intese bilaterali con gli amici storici, Londra e Washington, e tutelarne le ragioni presso Bruxelles. La Brexit allinea l’interesse italiano agli interessi britannici e americani; è possibile aiutare Londra ad ottimizzare la piena sovranità, offrendo all’Uk l’infrastruttura di mercato italiana – il sistema di Borsa italiana già appartiene al London Stock Exchge Group – per garantire ai mercati britannici accesso al sistema di pagamento europeo.

La Brexit non è autarchia o isolazionismo, a dispetto della propaganda comunitaria, ma al contrario l’inizio di un nuovo protagonismo britannico nel commercio internazionale. Mentre la premier Theresa May ha annunciato che l’Uk cercherà un accordo di libero scambio con la Cina; Australia, Canada, India, Nuova Zelanda e i Paesi del Golfo premono per riprendere canali di commercio bilaterali che superino la burocrazia europea. Michel Barnier invece ha condotto la trattativa per l’uscita in maniera ottusa e livida, convinto di poter punire Londra e disincentivare le crescenti spinte eurocritiche interne. Londra nel mentre si è posta al centro tra Usa ad occidente e Cina ad oriente. Il governo di Sua Maestà asseconda la dottrina America First da un lato, e cerca l’accessione al Nafta; e accompagna l’iniziativa Belt and Road, dall’altro, con la cogestione del fondo infrastrutturale anglo-cinese. L’Uk media tra le due superpotenze, e si lega alle due sole valute capaci di resistere alla globalizzazione. Questo Impero in versione 4.0 rischia di essere più vicino al sole di quell’Impero su cui il sole non tramontava mai. Apparet id quidem etiam caeco.

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