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I “compatrioti” cinesi di Taipei non si fidano di Xi. Lo stretto di Taiwan si allarga mentre Westphalia è lontanissima

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Il 2 gennaio, il presidente della Cina Popolare Xi Jinping ha tenuto un discorso per commemorare il 40esimo anniversario del “Messaggio ai Compatrioti Cinesi a Taiwan”. Sua intenzione è stata quella di riaffermare il cosiddetto “Principio di Una Cina” e “Un Paese, Due Sistemi”, cioè riaffermare, ancora una volta, la posizione secondo cui l’isola di Taiwan è parte della Cina e indicare al mondo che gli stranieri non dovrebbero interferire nella questione dell’indipendenza taiwanese. “La questione di Taiwan è parte della politica interna della Cina, è un interesse centrale della Cina”.

Pechino vede Taiwan come una provincia che si è smarrita e non ha diritto al riconoscimento internazionale come entità politica separata. Le autorità cinesi vorrebbero portare l’isola sotto il loro controllo e hanno indicato che useranno la forza, se necessario. Nel corso del 2018, il regime comunista ha aumentato la sua pressione multinazionale per convincere tutti i Paesi a fare riferimento a Taiwan come parte integrante della Cina.

Pechino e una minoranza a Taiwan sostengono la teoria della “One China”, secondo cui l’isola e la terraferma appartengono allo stesso “stato”. In estrema sintesi, Pechino considera Taiwan come un territorio in fuga illegittima dal dominio cinese, e il presidente Xi ha affermato che il processo di unificazione con la Cina Popolare è inarrestabile. “Il Paese sta crescendo forte, la nazione si sta ringiovanendo e l’unificazione tra le due parti dello stretto è la grande tendenza della storia”, ha dichiarato Xi a funzionari, autorità militari e ospiti internazionali nella Sala Grande del Popolo al centro di Pechino.

Da sottolineare che Xi ha pronunciato il suo discorso solo un giorno dopo che la presidente di Taiwan, Tsai Ing-wen, ha esortato la Cina a risolvere pacificamente le dispute sull’isola, i cui 23 milioni di persone, ha detto la presidente taiwanese, vogliono preservare il loro autogoverno. Le forze nazionaliste sotto Chiang Kai-shek fuggirono a Taiwan nel dicembre 1949 dopo aver perso una guerra civile contro i comunisti di Mao. “La proprietà privata, le credenze religiose e i diritti e gli interessi legittimi dei compatrioti taiwanesi saranno pienamente garantiti”, ha dichiarato Xi, che ha anche aggiunto all’offerta di colloqui un avvertimento – implicitamente rivolto anche agli Stati Uniti, che forniscono a Taiwan equipaggiamento militare e concordato supporto in caso di crisi: “Non promettiamo di abbandonare l’uso della forza”. Questa opzione, ha aggiunto, potrebbero essere usata anche contro “l’intervento di forze esterne”.

Le posizioni divergenti messe in evidenza dai due presidenti evidenziano che la situazione e il futuro di Taiwan rimangono in sospeso e che potrebbe scoppiare una crisi, soprattutto se entrambe le parti andranno a intensificare gli attriti o se il presidente Trump, alleato chiave di Taipei, continuerà a intensificare le attività diplomatiche e militari di sostegno a Taiwan.

Oggi a Roma in un incontro con la stampa italiana il rappresentante di Taipei in Italia, ambasciatore Andrea Lee, ha voluto rilasciare alcune dichiarazioni in merito. È opportuno sottolineare che la Repubblica di Cina (Taiwan) e l’Italia hanno interrotto le relazioni diplomatiche nel 1970, ma prima del 1990, con la creazione dell’Associazione culturale di Taipei, poi rinominata Ufficio di Rappresentanza di Taipei in Italia, i due Paesi hanno continuato a promuovere relazioni di amicizia. L’ambasciatore e rappresentante del governo della Repubblica di Cina (Taiwan) ha dichiarato che Taipei invita gli altri Paesi a mantenere relazioni normali e attive con Taiwan e a chiedere una risoluzione pacifica delle questioni in tutto lo Stretto di Taiwan, ogni volta che se ne presenti l’opportunità. “Taiwan desidera cooperare strettamente con Paesi che condividono valori universali, come la libertà e la democrazia e lo stato di diritto, in modo da meglio assicurare la pace, la stabilità e la prosperità della regione Asia-Pacifico”.

La posizione di Taipei sulle dichiarazioni di Xi si può riassumere in 5 punti. Il primo è che il rifiuto della Cina a rinunciare all’uso della forza contro Taiwan ha un impatto negativo sulla pace e la stabilità nella regione Asia-Pacifico. È palese che negli ultimi anni, la Cina ha costantemente aumentato il suo potere militare, minacciando così i Paesi della regione. Pechino ha anche inviato aerei e navi a svolgere azioni miliari in prossimità di Taiwan, sconvolgendo lo status quo e creando problemi. Taipei è convinta che queste azioni violino il principio dell’uso di mezzi pacifici per risolvere le controversie internazionali come previsto dalla Carta delle Nazioni Unite.

Il secondo, che l’accanimento cinese contro il popolo di Taiwan viola i valori fondamentali della democrazia, della libertà e dei diritti umani. “Taiwan è un Paese democratico, libero e rispettoso dei diritti umani, rispetta la libertà di religione e gli altri valori fondamentali”. L’ambasciatore ha detto anche che, a suo avviso, “nel corso degli anni, la Cina Popolare ha continuamente non rispettato i diritti umani, la libertà religiosa e gli altri valori fondamentali, minando così seriamente la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani’’.

Il terzo punto si focalizza sul cosiddetto “Principio di Una Cina”, che per Taiwan ignora la realtà. La Repubblica di Cina è un Paese sovrano e indipendente, che ha 17 alleati con rapporti diplomatici e ha sviluppato buone relazioni con la maggior parte degli altri Paesi in tutto il mondo. Per Taipei l’affermazione che il “Principio di Una Cina” abbia il consenso nella società internazionale non è assolutamente vero. Dei 178 Paesi che intrattengono rapporti diplomatici con la Cina, solo 51, meno di un terzo, hanno riconosciuto completamente ed esplicitamente il cosiddetto “Principio di Una Cina” nei loro accordi diplomatici o in altri documenti che stabiliscono relazioni con la Cina. Per l’ambasciatore Lee, “gli Stati Uniti, il Giappone, i membri dell’Ue e altre importanti democrazie hanno la loro One China Policy e non accettano il Principio di Una Cina proclamato dalla Repubblica Popolare Cinese”. Intervenendo davanti al Congresso degli Stati Uniti, l’allora vice segretario di Stato Usa James Kelly ha esplicitamente dichiarato che la “One China Policy” degli Stati Uniti non è esattamente la stessa cosa del “Principio di Una Cina” della Repubblica Popolare Cinese. Dopo essersi sottoposto al proprio processo di democratizzazione, Taiwan ha un presidente e un Parlamento democraticamente eletti, una stampa ricca e diversificata che ha piena libertà. Taiwan ha le proprie forze armate, conduce autonomamente i propri affari esteri, emette moneta propria, passaporti e visti, esercitando la giurisdizione assoluta ed esclusiva sul proprio territorio. “Taiwan decisamente non fa parte della Cina”.

Per quarto punto si è rimarcato che Taiwan continuerà a lavorare per mantenere lo status quo nello Stretto di Taiwan cercando di migliorare le relazioni tra le due sponde. “Taiwan intenzionalmente non ha mai cercato di prendere le distanze dalla Cina. Dal suo insediamento, la presidente Tsai ha ripetutamente mostrato buona volontà verso la Cina”. Va ricordato che la Cina Popolare con un’intensa azione diplomatico-economica, è riuscita a convincere cinque degli alleati diplomatici “storici” di Taiwan a non riconoscere il Paese. Inoltre, Pechino continua a ostacolare la partecipazione di Taiwan ai consessi internazionali ed è accusata da Taipei di aver costruito fake news per disturbare le elezioni taiwanesi e i delicati dibattiti politici connessi alla stesse. Ultimo e quinto punto, è quello della forte dichiarazione che l’esistenza di una Taiwan democratica è in linea con gli interessi comuni della società internazionale.

In sintesi, le posizioni dei due Paesi rimangono distanti. Dal punto di vista strategico è difficilmente immaginabile una guerra convenzionale scatenata da Pechino verso Taipei. Più possibile una serie di azioni di disturbo, nel lungo periodo, con le caratteristiche della guerra ibrida. Azioni sul piano finanziario, economico e politico con possibili cyber attacchi e supporto alle opposizioni al governo possono essere portate avanti con costi contenuti. Troppo costoso sul piano economico e poi di vite umane pianificare un’occupazione militare e un controllo del Paese a seguire. Basterebbe che Taiwan organizzasse da prima unità di élite pronte alla guerriglia che un’occupazione permanente sarebbe “costosissima”.

In conclusione, dopo quarant’anni non si vede una soluzione possibile. Eppure, basterebbe che, con buona pace di Pechino, si riconoscesse valido il concetto di sovranità westphaliana che, come noto, è basato sul concetto di stato sovrano. A Westphalia fu istituito il principio di divieto d’ingerenza negli affari interni di uno stato in rispetto alla sovranità statale, ma per Pechino Taiwan non è uno “Stato”. Difficile se non impossibile immaginare che Xi, pressato dall’interno del partito e desideroso di mandare al mondo un messaggio di potenza egemone mondiale, o quantomeno asiatica, possa mai pensare di accettare una tale soluzione diplomatica.

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