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Comprendere il caso Khashoggi: perché rompere con l’Arabia Saudita sarebbe un folle autogol

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La cattura e probabilmente l’uccisione di Jamal Khashoggi nel consolato saudita a Instanbul ha giustamente sollevato l’indignazione generale, anche grazie alla dovizia di particolari macabri – ma ancora non verificati – diffusi ad arte dalle autorità turche, interessate a infliggere i maggiori danni possibili alle relazioni tra Stati Uniti e Arabia Saudita e al principe ereditario Mohammad bin Salman. Con le debite proporzioni, una sorta di caso Regeni.

Ma per comprendere il caso Khashoggi bisogna afferrarne le enormi implicazioni geopolitiche e inquadrare correttamente il personaggio.

Khashoggi non era né un dissidente, né un giornalista, almeno non per come li intendiamo noi in Occidente. Non era un Sacharov o uno Wei Jingsheng saudita, né un Daniel Pearl. Era, questo sì, un oppositore del nuovo corso avviato a Ryad dal neo principe ereditario MBS, che sta tentando di portare avanti un processo di modernizzazione sociale ed economica del Regno, accompagnata però da una forte azione repressiva, una sorta di purga interna al regime, e da una politica estera insolitamente aggressiva, per Ryad, nei confronti dei rivali regionali – Iran, Turchia e Qatar.

Dunque, Khashoggi era un oppositore di MBS, ma questo non fa di lui un martire della libertà e della democrazia, come emerso, con qualche eccezione, dalla narrazione mediatica dei giorni scorsi. Non era un liberale, infatti, ma un islamista, membro secondo alcuni, o quanto meno fiancheggiatore dei Fratelli Musulmani, di cui condivideva la visione politica di fondo. Spesso capita che gli esponenti e i leader dei Fratelli Musulmani parlino di democrazia, ma il loro obiettivo è imporre la legge islamica, un regime teocratico sul modello iraniano, sebbene non sciita ma sunnita, sfruttando il processo democratico per abbattere le monarchie arabe e le dittature laiche della regione, colpevoli di aver aperto le porte all’influenza occidentale. A Erdogan – il cui partito (AKP) è, in effetti, il ramo turco della Fratellanza – sta riuscendo, a Morsi in Egitto non riuscì. E infatti Khashoggi aveva legami profondi con uomini molto vicini a Erdogan, di cui si fidava, e non ha mai criticato il presidente turco, sebbene negli ultimi anni fosse diventato proprio lui, che oggi punta il dito sui sauditi, l’emblema dell’autocrate che perseguita i giornalisti liberi o d’opposizione. Non deve sorprendere dunque che a Ryad la Fratellanza Musulmana sia vista come una minaccia alla sopravvivenza stessa della monarchia saudita. Anche il Wahhabismo saudita predica la supremazia della legge islamica, la sharia, ma non propaganda vie democratiche alla teocrazia ed è intimamente legato alla dinastia dei Saud.

Né sorprende quindi che Khashoggi fosse diventato uno dei più coccolati opinionisti del mondo arabo per quei media occidentali, tra cui il Washington Post, che attaccano la politica estera del presidente Donald Trump (e il principale artefice, il genero Jared Kushner), fondata su un’inversione di rotta in Medio Oriente – il ritorno al fianco degli alleati storici, Israele e Arabia Saudita, l’uscita dall’Iran deal e la fine dell’appeasement con Teheran.

Ma Khashoggi era anche un insider del regime saudita. Un personaggio cruciale per la famiglia reale, anche perché probabilmente a conoscenza dei segreti e dei lati più oscuri della storia del Regno negli ultimi trent’anni. Fu amico e ammiratore di Osama Bin Laden, del quale negli anni ’80 e ’90 seguiva come giornalista le gesta nella jihad contro i sovietici. Negli stessi anni però lavorava anche per i servizi segreti sauditi, proprio nel periodo chiave – dopo la caduta dell’Urss – della rottura e dei rapporti complicati e ambigui tra Ryad e il fondatore di Al Qaeda. Come i reali, Khashoggi si dissociò completamente da Bin Laden dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001, che però non gli impedirono di piangerne la morte, nel 2011, in nome dell’antica amicizia. Successivamente, divenne uno dei più stretti collaboratori dell’allora ambasciatore a Londra e Washington (siamo tra il 2003 e il 2006), il principe Turki bin Faysal, che era stato per circa 24 anni direttore generale dell’intelligence saudita – dal 1977 fino a dieci giorni prima (!) dell’11 settembre 2001. Insomma, un personaggio per trent’anni nei gangli dell’intelligence saudita e a contatto con quella occidentale. Non può sorprendere quindi che il principe bin Salman volesse il suo ritorno nel Regno, con le buone – poche settimane fa un’offerta di riconciliazione, respinta al mittente, come raccontato da un amico di Khashoggi – o con le cattive – un rapimento finito male, secondo una delle ipotesi. Come ha scritto John R. Bradley sullo Spectator, la sua è la storia di un uomo inestricabilmente inserito nelle dinamiche di una famiglia reale che “funziona come la Mafia”. “Una volta che sei entrato a farne parte, è per la vita, e se provi ad uscirne, diventi spazzatura”.

Sulla pelle, anzi probabilmente sul cadavere di Khashoggi si sta giocando oggi una partita che non ha nulla a che fare con lo sdegno per l’assassinio politico e la disumanità dei regimi dispotici. La Fratellanza Musulmana, il presidente turco Erdogan e il regime iraniano sono infatti scatenati nel tentare di trarre il maggior vantaggio politico possibile dalla sua morte, ovvero indebolire i legami tra Stati Uniti e Arabia Saudita e la presidenza Trump, oltre che naturalmente minare l’autorità interna e l’immagine esterna del principe ereditario MBS. Non deve sorprendere quindi la solerzia turca nel denunciare l’accaduto e diffondere dettagli. Tutte le fonti, quelle turche come quelle del Golfo, sono interessate e vanno trattate con estrema cautela.

Mohammed bin Salman si trova davanti a una serie di sfide che probabilmente il Regno non ha mai conosciuto, almeno non tutte insieme. Le ambizioni egemoniche di Teheran, che mira a una mezzaluna sciita da Baghdad a Damasco e Beirut, e a minacciare direttamente Ryad dallo Yemen. Le ambizioni neo-ottomane della Turchia di Erdogan, che punta a scalzare i sauditi come voce leader del mondo sunnita. Il ritorno della Russia nella regione e la sfida del petrolio e del gas naturale americani al ruolo dominante dell’Opec. All’interno, una popolazione giovane e in crescita con elevate aspettative di opportunità economiche e di aperture sociali, rispetto alle quali l’assetto tradizionalista del regime appare impreparato. MBS ha permesso alle donne saudite di guidare, aperto al ritorno di musica e cinema, limitato i poteri della polizia religiosa, avviato una privatizzazione parziale di Aramco, si è schierato al fianco di Israele contro la minaccia iraniana. Ma il cambiamento interno non sta procedendo dolcemente e senza ostacoli, così come la politica estera non è priva di passi falsi. Ma soprattutto, essere un modernizzatore, un riformatore, non equivale ad essere un sincero democratico, come la storia ci ha più volte insegnato. Bisogna guardare al principe bin Salman, ha scritto ieri Walter Russell Mead sul Wall Street Journal, come a “un autocrate che usa il suo potere dispotico per trascinare il suo Paese nel futuro: Pietro il Grande, non Thomas Jefferson” (nella migliore delle ipotesi…). Il caso Khashoggi rischia di polverizzare i suoi sforzi per acquisire standing, prestigio internazionale.

Ma se MBS “non si sta trasformando in una farfalla liberale, nemmeno Turchia e Iran”, fa notare WRM. E “sulle questioni fondamentali, gli interessi americani e sauditi sono allineati”. Washington “vuole assicurarsi che nessuna potenza da sola, interna o esterna al Medio Oriente, abbia il totale controllo del rubinetto mondiale del petrolio. Il che significa che l’Arabia Saudita deve restare indipendente e sicura”.

Alla luce del caso Khashoggi, ci sono due errori che gli Stati Uniti non devono commettere. Il primo, nascondere sotto il tappeto il suo assassinio. Deve arrivare “un messaggio chiaro a Ryad che questa condotta indebolisce e in sostanza mette a rischio gli stessi interessi sauditi e l’alleanza”. Ma non devono nemmeno, avverte WRM, rompere con l’Arabia Saudita – come vorrebbero i difensori dell’Iran deal e gli estimatori di Erdogan e della Fratellanza Musulmana. “Sarebbe una reazione esagerata che farebbe il gioco dei nemici dell’America” e potrebbe indurre i sauditi ad una “temerarietà anche maggiore”.

Senza mitizzare, condannare o incoraggiare MBS, conclude Walter Russell Mead, Washington “deve andare al cuore del problema: l’insicurezza saudita”. “Per restituire equilibrio e sobrietà alla sua politica estera, l’Arabia Saudita deve calmarsi, e solo gli Stati Uniti possono fornirle le rassicurazioni perché ciò sia possibile, il che implica cooperare con i sauditi (e gli israeliani) su una politica mirata a contenere l’Iran e a stabilizzare la regione”.

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