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Coronavirus in Europa già da gennaio: altro che scuse, a Xi dovremmo chiedere i danni

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Alla luce dell’aggiornamento di ieri della Protezione civile, è fondato supporre che questa sera il numero di contagiati da coronavirus in Italia possa sfondare quota 2.000. Il contagio rilevato nei focolai del nostro Paese raddoppia in soli due giorni invece dei quattro stimati dagli epidemiologi per questo virus. Ieri sera infatti risultavano 1.694 contagiati totali (+566), di cui 34 decessi (+5), 83 guariti e 1.577 ancora positivi. Di questi ultimi, 140 sono in terapia intensiva (il 9 per cento). Casi positivi quasi raddoppiati in 24 ore in Francia e in meno di 2 giorni in Germania. Anche da lì giungono resoconti di assalti ai supermercati. A Parigi casi sospetti rispediti a casa perché troppi (forse per panico) da esaminare e Museo del Louvre chiuso. Insomma, tutto fa pensare che la progressione possa rivelarsi non molto diversa dalla nostra. Dati che ci confermano, come scrivevamo sabato, che siamo solo all’inizio, che proprio in questi giorni ci stiamo giocando le nostre chance di contenere, rallentare l’epidemia, e quindi quanto siano fuori luogo oggi gli appelli a “tornare alla normalità” e insulse le polemiche sulle partite di Serie A.

Ciò non significa, naturalmente, non potersi occupare delle misure di riduzione del danno economico, che comunque soprattutto nel settore turistico e del trasporto aereo sarà di scala europea e globale, quindi anche qui mantenendo i nervi saldi, senza farsi prendere dal panico.

Ma nella giornata di ieri sono arrivate tre autorevoli conferme dell’ipotesi di cui da alcuni giorni stiamo parlando qui su Atlantico, e cioè che il virus sia arrivato in Italia (e in Europa) molto prima di quanto pensassimo, probabilmente prima che il presidente cinese Xi Jinping e l’Oms dichiarassero l’emergenza, quindi già da metà gennaio. Ipotesi non così assurda, se come ormai accertato il virus si è diffuso in Cina almeno a partire dai primi di dicembre, e come ipotizzato da uno studio scientifico italiano potrebbe essersi manifestato già tra metà ottobre e metà novembre dell’anno scorso.

Non bisogna dimenticare, quindi, oltre ai gravi errori del nostro governo, che la diffusione del coronavirus si deve ad una catena di omissioni, silenzi e ritardi che viene da lontano, da molto lontano, come abbiamo già sottolineato su Atlantico. E più passano i giorni, più emergono elementi di prova, sia dalla Cina (come ricostruisce Enzo Reale nel suo informatissimo articolo di oggi) sia sul campo in Italia, ad inchiodare alle proprie responsabilità il governo di Pechino (e, inevitabilmente, anche l’Oms).

Uno di questi è la testimonianza a Repubblica di Francesca Russo, uno dei medici impegnati nell’indagine epidemiologica, nella ricerca dell’ormai mitologico “paziente zero”. I due anziani di Venezia positivi al coronavirus – 86 e 88 anni, residenti in due quartieri distinti del centro storico – non hanno fatto viaggi in Cina, non hanno avuto contatti con persone tornate dalla Cina, raramente escono di casa, vivono da soli. Com’è possibile, allora, che si siano infettati? “Una spiegazione plausibile” è che “il virus circolasse sotto traccia in Europa da molto tempo, almeno da un mese prima rispetto a venerdì 21 febbraio, quando sono stati diagnosticati i due casi di Vo’ Euganeo”, confondendosi con il normale virus influenzale, fino a quando non sono emersi i casi più gravi. La dottoressa Russo ipotizza che il contagio a Vo’ “possa essere stato causato da qualcuno proveniente dalla Cina, perché il cluster è molto ampio ed è legato alla frequentazione di un locale pubblico”.

Un’altra testimonianza arriva invece dalla prima linea della lotta all’epidemia di coronavirus in Lombardia: l’infettivologo Massimo Galli, primario dell’Ospedale Sacco di Milano, dice al Corriere di non aver mai visto, in 42 anni di professione, “un’influenza capace di stravolgere l’attività dei reparti di malattie infettive e delle rianimazioni di un’intera regione tra le meglio organizzate e preparate alle emergenze d’Italia”. E spiega che “tanti quadri clinici gravi e tutti assieme fanno pensare che l’infezione abbia iniziato a diffondersi nella cosiddetta zona rossa da abbastanza tempo”, forse prima che fossero bloccati i voli dalla Cina. “È verosimile che i ricoverati negli ultimi giorni si siano contagiati da due a quattro settimane fa”. Anche perché, a leggere le anamnesi, osserva Galli, “mi sembra che assomigli alla SARS, anche nelle modalità di decorso, con le manifestazioni più impegnative che in molti casi compaiono 7-10 o più giorni dai primi sintomi”.

Il problema, come ci sforziamo da giorni di sottolineare, non è tanto la letalità del virus in sé, ma quella che deriverebbe da un collasso del sistema sanitario dovuto ai tanti casi che necessitano di terapia intensiva. E la testimonianza del professor Galli dal fronte lo conferma:

“Ci troviamo a dover gestire una grande quantità di malati con quadri clinici importanti. Sta succedendo qualcosa di grave, non soltanto da noi ma anche in Germania e Francia… una marea montante di pazienti impegnativi… Nessun sistema sanitario avanzato può essere predisposto per ricoverare tanti pazienti critici tutti assieme e per di più in regime di isolamento. Venerdì in Lombardia erano 85 i posti letto di rianimazione occupati da malati intubati con diagnosi di Covid-19, una fetta molto importante di quelli disponibili. Va ricordato che gli altri motivi per cui una persona può aver bisogno di un letto in rianimazione non spariscono soltanto perché è arrivato il coronavirus“.

Dopo la dottoressa Russo e il professor Galli, anche Giovanni Rezza, direttore del Dipartimento malattie infettive dell’Istituto superiore di sanità, ha osservato ieri, durante il punto stampa alla Protezione civile, che i primi casi positivi risalgono “all’inizio di febbraio, ma l’infezione già circolava in Italia nella seconda metà di gennaio”.

Il che rende tempi e spostamenti in Italia sia della coppia di turisti cinesi curata allo Spallanzani di Roma, sia della famiglia di Taiwan trovata positiva al rientro in patria il primo di febbraio, compatibili con l’arrivo del virus nel nostro Paese – non potendo ovviamente escludere che ad introdurlo sia stato un viaggiatore europeo di ritorno dalla Cina.

Ciò che qui si vuole sottolineare, però, è che se il virus è presente, almeno in Europa, da così tanto tempo, da metà gennaio e forse anche da prima, i ritardi per negligenza o dolo nel dare l’allarme, i silenzi e le omissioni, sia da parte di Pechino che dell’Oms assumono una gravità ancora maggiore. Risale al 31 dicembre scorso, per esempio, il primo comunicato della Commissione municipale per la salute di Wuhan, nel quale per la prima volta si parla ufficialmente di una nuova letale forma di polmonite, riferendo di 27 casi, di cui 7 critici, ma negando che fosse riscontrata una trasmissione “da uomo a uomo”, come nei giorni successivi la stessa Oms avrebbe ripetuto.

Basta collegare gli elementi presentati in questo articolo che collocano la presenza del coronavirus in Europa già da metà gennaio con la timeline dell’insabbiamento iniziale da parte del governo cinese, che trovate ricostruita nell’articolo di oggi di Enzo Reale per Atlantico, e il quadro che emerge è disarmante nella sua chiarezza. Altro che scuse, a Pechino dovremmo chiedere i danni.

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