Cultura

Il Cavallo nascosto/1: il raid automobilistico Pechino-Parigi del 1907

Prima parte: l’Itala, il principe, lo scrittore, l’uomo-macchina. Il primo reale banco di prova per l’invenzione che avrebbe cambiato il mondo: l’automobile

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* Liberamente tratto dal libro “La metà del mondo vista da un automobile – da Pechino a Parigi in 60 giorni” (Milano, Ulrico Hoepli Editore, 1908)

Prologo

Quando, sul finire dell’anno 1906, l’allora trentatreenne Luigi Barzini, astro nascente del giornalismo d’azione italiano, venne incaricato dal direttore del Corriere della Sera di seguire l’impresa del principe Scipione Borghese, non vedeva l’ora di partire per quella nuova e affascinante avventura. Da lì all’inizio dell’estate dell’anno 1907 si sarebbe svolto un raid automobilistico spettacolare, con cinque equipaggi appartenenti, oltre all’Italia, alla Francia e all’Olanda.

L’obiettivo era ambizioso e di non facile raggiungimento: si trattava di partire da Pechino a bordo delle loro automobili e di arrivare, dopo un percorso di oltre 16 mila chilometri, a Parigi, attraversando la Cina, la Mongolia, la Russia, i Paesi Baltici, la Germania e la Francia. Da parte sua, il principe Scipione Borghese, già notissimo in Europa per le sue precedenti avventure ed esplorazioni, accettò di buon grado di ospitare Barzini, in veste di cronista e fotografo, a bordo della sua auto “Itala”, oltre al suo inseparabile chauffeur, Ettore Guizzardi.

L’Itala

La macchina italiana, tra le cinque partecipanti al raid, era di sicuro la più potente e prestante, coi suoi 40 cavalli di potenza, per quanto non fosse propriamente leggera, con circa 1500 Kg di peso a vuoto. Avrebbe, tuttavia, potuto supplire, grazie al generoso motore, alle complicazioni derivanti dalle ragguardevoli dimensioni del mezzo ed al suo stesso peso. Le grandi ruote in legno, tutte e quattro della stessa dimensione, erano state maggiorate nel diametro e adeguatamente rinforzate rispetto al modello commerciale di casa Itala.

I parafanghi erano smontabili ed utilizzabili, alla bisogna, come guida da porre a terra nei tratti fangosi che certamente avrebbero incontrato lungo il cammino. Il principe Borghese era un uomo che non lasciava nulla al caso e la sua proverbiale meticolosità faceva sì che, oltre a due grandi serbatoi smontabili per la benzina, a bordo dell’Itala ogni spazio libero venne sfruttato con ottima competenza ingegneristica per ospitare le attrezzature tecniche, come corde, palanchini, argani a mano, ricambi meccanici e moltissimi accorgimenti tecnici che sarebbero stati indispensabili lungo le piste sabbiose, fangose o rocciose che la sua macchina avrebbe dovuto percorrere.

Non poteva certo dirsi un mezzo confortevole; tutt’altro: persino i sedili, per una buon parte del viaggio, vennero smontati e sostituiti da più utili cassette in legno. Tanto, si guidava quasi sempre stando in piedi!

L’Itala doveva emettere un baccano d’inferno, siccome, da un certo punto in poi, quelli che all’epoca si chiamavano “silenzianti” erano stati rimossi per spremere il motore fino all’ultimo cavallo vapore disponibile. Per i lunghi ed impervi passaggi montani, l’Itala sarebbe stata trainata da somari, cavalli, cammelli che seguivano in carovana, unica risorsa a cui attingere in quei casi.

Quella strana e minacciosa creatura meccanica, avrebbe dovuto sopportare le più provanti fatiche, sottoposta a sollecitazioni meccaniche mai provate prima, al limite della rottura dello stesso telaio. Luigi Barzini, con la sua inarrivabile abilità descrittiva in poche parole, scrisse: “Era lo scheletro della macchina che soffriva, che si stancava, e la stanchezza delle macchine non si guarisce col riposo”.

Le altre auto partecipanti

Ben più agili e leggere erano le altre quattro macchine partecipanti, ossia le due De Dion-Bouton da 10 cv dei francesi Georges Cormier e Victor Colignon, l’olandese Spyker da 15 cv, condotta da Charles Godard e Jean du Taillis ed il curioso triciclo Contal da soli 6 cv del francese Auguste Pons. Tuttavia, la potenza erogata dai motori delle altre concorrenti era talmente ridotta da penalizzarle in modo umiliante, per cui non vi fu praticamente competizione: gli altri mangiarono la polvere, almeno nei brevi tratti in cui poterono vedere davanti a sé la macchina italiana. L’anacronistico triciclo Contal, da parte sua, abbandonò la gara a metà per irreparabile rottura meccanica.

Emula, in scala ridotta, delle maestose locomotive a vapore che, all’epoca, insegnavano la differenza tra uomo e macchina, imbrattando il primo degli untuosi e nerastri umori della seconda, l’Itala fu per molti il primo tentativo d’imporre il privilegio dei cavalli-vapore sulla fatica fisica di uomini e animali e la puntuale cronaca di Barzini non cessa, fino all’ultima pagina del diario, di celebrare la natura semi-vivente di quella nuovissima e potente creatura che vollero mettere alla prova.

Primo banco di prova

Perché, alla fine, di questo si trattò, ossia di vedere fin dove (e se) un mezzo privo di rotaie avrebbe potuto portare l’uomo verso l’ignoto, prima della prevedibile resa dell’ammasso di metallo e legno duro di cui era fatto. Una resa che, tranne Scipione Borghese ed il suo fidato Ettore, per non parlare di Barzini, praticamente tutti i partecipanti e gli stessi finanziatori della gara si aspettavano da un momento all’altro: non potevano farcela con quei mezzi.

E invece no. Ce la fecero, battendo ogni più pessimistica previsione, perché, se il percorso era soltanto sommariamente tracciato sulle carte geografiche che avevano elaborato, la strada verso il progresso era stata, magari inconsapevolmente, tracciata dallo spirito che anima i protagonisti della storia.

Quell’impresa fu il primo, reale, banco di prova al quale venne sottoposta l’invenzione che avrebbe cambiato il mondo: l’automobile. Il principe Borghese, nella sua introduzione al libro, ne disse:

Il raid Pechino-Parigi fu una prova ad oltranza della produzione automobilistica, e come tale esso interessò il pubblico. Le nostre persone, il nome della marca, erano in seconda linea, la nostra vettura rappresentava la produzione automobilistica europea.

Il principe

Luigi Marcantonio Francesco Rodolfo Scipione Borghese, X Principe di Sulmona, nacque l’11 febbraio 1871 a Castello di Migliarino e, all’epoca del raid, aveva 36 anni. Erede della nobile ed antica famiglia senese che ebbe anche un Papa, si era fin dalla più giovane età distinto per la sete d’avventura e di nuove scoperte, unite ad una rigorosa propensione allo studio e approfondimento tanto delle discipline sociali che di quelle tecniche.

Dopo aver studiato scienze fisiche e matematica a Roma, entrò all’Accademia Militare di Torino, dalla quale uscì con il grado di sottotenente d’artiglieria nel 1892. Fu anche uomo politico, militando nella sinistra storica italiana ed essendo, in quelle liste, eletto deputato nel 1904. Instancabile fautore dell’ammodernamento e razionalizzazione dei settori agricoli e marittimi, fu tra i protagonisti della ristrutturazione del porto di Genova e della bonifica delle paludi dell’Agro Pontino.

All’epoca della partenza del Raid Pechino-Parigi aveva già partecipato a numerose imprese d’ardimento e ricerca scientifica che lo avevano visto percorrere in lungo e in largo, oltre alla stessa Cina, la Siria, la Mesopotamia ed i Paesi affacciati sul Golfo Persico. Nel raid, ebbe l’incontrastato ruolo di capo-spedizione e di comandante dell’equipaggio italiano. Morì a Roma nel 1927, all’età di 56 anni, senza discendenti.

Lo scrittore

Luigi Barzini, nato a Orvieto nel 1874 da una famiglia della piccola borghesia locale, frequentò l’Istituto tecnico di Perugia, dal quale avrebbe dovuto uscirne ragioniere, ma abbandonò gli studi alla morte prematura di entrambi i suoi genitori, per poi trasferirsi a Roma, ove iniziò la sua attività giornalistica presso un periodico minore, “Il Fanfulla”, che non gli diede grande rilievo, ma gli permise di migliorare la tecnica narrativa e gli permise, comunque, di “entrare nel giro” della stampa.

Ben presto, nell’anno 1899, la sua arguta penna venne notata dall’allora direttore del prestigioso Corriere della Sera, Luigi Albertini, il quale, vedendo nel giovane Barzini qualità di assoluto rilievo, azzardò e lo inviò a Londra come corrispondente di quel giornale. Ormai in grado di parlare, oltre all’italiano un buon francese ed un decoroso inglese, Barzini venne ritenuto all’altezza di andare dall’altra parte del mondo, sempre per il Corriere, per documentare la Rivolta dei Boxer del 1900.

Abile disegnatore ed appassionato cultore della nascente tecnica fotografica, Luigi Barzini fu il primo vero inviato di guerra italiano e, per decenni, ebbe modo di girare tutti i continenti in quella veste, acquisendo ben presto una notorietà ed uno straordinario consenso tra i lettori che gli fruttarono persino un seggio al Senato del Regno, nel 1934.

La sua adesione iniziale al Partito Nazionale Fascista, col quale non ebbe sempre rapporti idilliaci, gli costò la rottura dei rapporti col suo storico direttore al Corriere della Sera, Albertini, dopo decenni di sincera amicizia e di vicendevole stima profonda, ma questa è un’altra storia, travagliata ed interessante, che meriterebbe una narrazione a sé. Morì a Milano il 6 settembre 1947, in condizioni di povertà. Sic transit gloria mundi.

L’uomo-macchina

Ettore Guizzardi, nato a Budrio (PR) nel 1881, figlio di un ferroviere macchinista, già da bambino era solito, quando gli venisse concesso, accompagnare il padre, Enrico, lungo qualche breve tratta ferroviaria, a bordo della possente vaporiera che egli conduceva. Ma il destino del giovane Ettore era segnato.

Nell’anno 1897, mentre il sedicenne Ettore stava rannicchiato in un angolo del tender che riforniva di carbone e acqua la locomotiva del padre, il treno deragliò, accartocciandosi su sé stesso, in un frastuono incredibile, proprio nei pressi della tenuta dei principi Borghese, ad Albano Laziale. Dai rottami della locomotiva, i soccorritori, perlopiù appartenenti alla servitù dei Borghese, estrassero, ferito ma ancora miracolosamente in vita, il giovane Ettore, mentre per il padre non vi fu nulla da fare.

Presisi cura del ragazzo, che già aveva perso la madre, i principi lo curarono e lo tennero per anni in casa loro, ben presto affidandogli la manutenzione delle sei automobili di cui disponeva la famiglia. L’abilità nella guida e la stupefacente capacità nella meccanica automobilistica di Guizzardi lo videro, in breve tempo assumere il ruolo di chauffeurcapo della flotta dei Borghese, e fu proprio il principe Scipione ad inviarlo a sue spese, prima a Torino presso lo stabilimento Fiat e poi a Genova, presso le Industrie Ansaldo per affinare le sue conoscenze nella meccanica e sui motori per automobili.

Non vi fu dubbio alcuno, perciò, quando il Principe Borghese s’iscrisse al raid Pechino-Parigi, su chi avrebbe dovuto scegliere come compagno di viaggio. Ettore Guizzardi, lo straordinario connubio vivente tra l’uomo e la macchina, come vedremo, ebbe un ruolo determinante nell’impresa del 1907. Ma non basta: arruolatosi come volontario autiere durante la Prima Guerra Mondiale, nella Seconda Guerra Mondiale, sempre nello stesso Corpo degli Autieri, né uscì promosso al grado di capitano e venne più volte decorato al merito. Morì nella sua Budrio il 23 novembre 1963.

Siamo giunti alla fine della prima parte di questo racconto. Se vi piacerà, d’ora in avanti, inizieremo a sporcarci le mani d’olio e ad imbrattare le lenti dei nostri grandi occhiali da chauffeur di sabbia e fango…

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