Cultura

Il pietoso alibi dell’antisionismo per auto-assolversi dall’accusa di antisemitismo

L’ipocrisia di chi si dice antisionista ma non antisemita. Ecco perché sionismo ed ebraismo sono intimamente legati, negarlo rivela odio antisemita di fondo

Israele Palestina map © Lightguard, sitox e Derek Brumby tramite Canva.com

Cercare di trovare un senso nel diluvio di contenuto antisemita diffuso a livello virale su internet sembra una missione impossibile: tra chi bolla gli israeliani come sadici assassini di bambini, chi pensa si siano fatti da soli l’attacco del 7 Ottobre, chi crede che gli ebrei siano originari dell’Europa, o persino chi sostiene che i palestinesi in realtà non siano arabi, si sprecano le visioni fantasiose nella fiera dell’assurdo digitale.

L’alibi

Eppure, basta raschiare via questa patina paranoide per trovare una certezza granitica e, secondo tutti gli odiatori professionisti di Israele, inattaccabile. Stiamo parlando del pietoso alibi dell’antisionismo, da tenere ben distinto e separato dall’antisemitismo con cui, così dicono, non avrebbe niente a che fare.

Quanti sono sempre pronti a scendere in piazza in difesa dei poveri palestinesi (senza ovviamente dire una parola sui siriani uccisi di tanto in tanto dai bombardamenti russi) sentono il bisogno impellente di trattenere la loro malafede per non farsela scappare nei pantaloni, di tapparsi il naso per non sentire essi stessi per primi il tanfo del razzismo antiebraico che accompagna le loro parole, ripetendo in modo ossessivo (forse più per convincersi che per convincere altri) “io sono antisionista, non antisemita”.

Punto fondamentale di questo atteggiamento negazionista, è il maldestro tentativo di recidere ogni rapporto tra sionismo ed identità ebraica, come se il primo non fosse intimamente legato alla seconda.

Ebrei buoni e cattivi

Non è quindi un caso che uno dei cavalli di battaglia della moderna propaganda antisemita sia la distinzione tra veri ebrei e sionisti. Da una parte insomma ci sarebbero i buoni ebrei, dall’altra i cattivi ladri-di-terre sionisti, spuntati all’improvviso e senza alcun legame con la millenaria tradizione ebraica, quasi fossero un prodotto sintetico, sviluppato in un qualche laboratorio.

Quel che di solito non viene detto, anche se si può leggere tra le righe, è chi sia secondo costoro il buon ebreo: cosmopolita, ridotto a minoranza, piccolo, sottomesso, impaziente di prendere le distanze dallo Stato ebraico. Ne è un esempio l’account X di Torah Judaism. Pur presentandosi come “Ebrei uniti contro il sionismo”, chiunque gestisca l’account non affronta mai questioni religiose riguardanti la Torah, ma si dedica unicamente alla delegittimizzazione di Israele [1].

Quando lo stesso ebreo non ci sta a farsi mettere i piedi in testa, quando si mette assieme ad altri ebrei e reagisce, quando esce dal ghetto e si fa strada nel mondo degli affari, in quel caso diventa il malvagio giudeo col nasone, che controlla la finanza ed i media, manipola il mondo dietro le quinte e vuole rubare la terra ai palestinesi, e chissà perché proprio a loro poi… Si spiega così il fatto che tra tutti gli ebrei, i cosiddetti antisionisti abbiano scelto di sostenere solo quei pochi che sputano su Israele.

Vale a dire che gli ebrei vanno bene solo finché si fanno allegramente prendere a schiaffi in faccia e recitano la parte del popolo usa-e-getta, da strumentalizzare in un senso o nell’altro a seconda della convenienza del momento, e sempre buoni per allontanare da sé il sospetto di antisemitismo.
Quando un ebreo però osa essere poco piacione e troppo ebreo, allora diventa fastidioso nel migliore dei casi, o un assassino con le mani sporche del sangue palestinese nel peggiore.

Antisemitismo

Prima di entrare nel merito della questione, ossia se si possa essere antisionisti senza essere antisemiti, è necessario definire in modo preciso i termini.

Sembra assurdo, ma persino una parola come antisemitismo genera ambiguità. Una tesi strampalata sostiene che non esisterebbe, dal momento che anche gli arabi sono semiti. Tesi che non tiene conto di un fatto elementare: il termine nacque nell’Europa del XIX secolo, quando le uniche comunità di semiti con cui gli europei avessero a che fare erano sostanzialmente gli ebrei; pertanto va ad indicare unicamente l’odio antiebraico, e non un generico odio contro tutti i popoli semiti.

Antisionismo

È quando si passa all’altra parola, di cui spesso i detrattori ignorano persino il significato, che le cose si fanno più “interessanti”. Stiamo parlando del sionismo. Parola che prende il nome da Sion (una collina di Gerusalemme, e che dunque per estensione indica la terra di cui Gerusalemme fu capitale anche in tempi antichi), e che incarna l’aspirazione del popolo ebraico a costituire il proprio-stato nazione in quella che era nota nel XIX secolo come Palestina, e più anticamente come Giudea, vale a dire la terra natale degli ebrei [2].

Va da sé che dichiararsi antisionisti significa opporsi a tale disegno e alle sue conseguenze pratiche, ossia all’esistenza stessa di uno Stato ebraico nelle terre che videro la nascita e la fioritura dell’ebraismo.

Ma se il sionismo altro non è che il diritto del popolo ebraico a costituire il proprio stato nella propria terra nativa, allora ci possono essere solo due modi possibili di essere antisionisti: 1) ritenere che gli ebrei non siano un popolo; 2) ritenere che siano sì un popolo, ma che a differenza di tanti altri (o forse di tutti gli altri) popoli, loro no, non avrebbero diritto ad uno stato tutto per sé.

È evidente quanto la prima possibilità sia del tutto assurda. Se gli ebrei non sono un popolo, nonostante una origine etnica, una religione ed una lingua a distinguerli da altri gruppi umani, quale comunità umana costituisce un popolo dunque? Cos’è che renderebbe i palestinesi più popolo degli ebrei?

Più interessante invece discutere la seconda, per capire per quale motivo gli ebrei dovrebbero fare eccezione in negativo. Perché dovrebbe essere garantito uno stato ai palestinesi, ai curdi, ai tibetani e magari anche agli uiguri, ma agli ebrei no? Perché proprio per loro non dovrebbe valere ciò che si applica a chiunque altro? Se tutto ciò che in linea teorica dovrebbe essere garantito ai popoli, in realtà non vale per gli ebrei, come è possibile spiegarlo senza un sostanziale odio antisemita di fondo?

Nel caso ebraico poi, tale considerazione risulta ancora più disgustosa. Ogni comunità umana sviluppa logicamente un attaccamento nei confronti della terra in cui è insediata da secoli, ma nel caso degli ebrei c’è in aggiunta un forte elemento sacrale e identitario: la promessa di Yahweh al suo popolo.

La Terra di Israele è insomma tutto per gli ebrei, perché manifestazione concreta della cultura e religione ebraica, molto più di quanto possa essere la Francia per i francesi o il Giappone per i giapponesi. Come per i cristiani Dio si fa uomo, per gli ebrei Yahweh si fa Eretz Israel, Terra d’Israele. Negarlo significa attaccare al cuore l’ebraismo, colpendolo nella cosa più cara. Sarebbe come bruciare alla vicina di casa le foto del figlio morto, magari dicendole al tempo stesso che non si prova alcun odio nei suoi confronti.

Il rifiutare agli ebrei ciò che si sostiene andrebbe garantito a tutti gli altri, ben sapendo che proprio per gli ebrei acquista un’importanza tutta particolare ed al centro della loro identità, come andrebbe classificato? Come espressione di amore o, al contrario, di puro e semplice odio antiebraico?

Sionismo ed ebraismo

È ora possibile affrontare di petto la questione che gli odiatori dello Stato di Israele pongono in modo tale da auto-assolversi dall’accusa di antisemitismo: la presunta estraneità del sionismo all’ebraismo. Nel farlo, è importante tenere ben presente che il legame viscerale che gli ebrei hanno con la Giudea non è conseguenza ma, al contrario, causa del sionismo.

Il sionismo prende origine dall’incontro della storica aspirazione ebraica al ritorno alla Terra Promessa, con le idee nazionaliste e il concetto di stato-nazione nell’Europa del XIX secolo, in cui per l’appunto nacque come movimento organizzato. Non è dunque che gli ebrei si siano messi in testa con Theodor Herzl di tornare in Giudea; semmai è Herzl che ha steso il progetto, per passare da parole ripetute per quasi 2000 anni ai fatti.

“L’anno prossimo a Gerusalemme” non è il semplice equivalente del nostro “Buona Pasqua”: è un augurio che gli ebrei si scambiano e che nasconde una promessa fatta per rimanere fedeli alla propria storia. È una frase, che alcuni fanno risalire addirittura all’esilio babilonese, che racchiude la certezza di poter tornare un giorno nella terra dei padri.

David Alroy, leader di una comunità ebraica irachena, si proclamò messia e tentò di condurre i suoi seguaci a Gerusalemme nel XII secolo [3]. Sono accertati casi di ebrei che durante il Medioevo si trasferivano in Giudea [4], così come è evidente una continua presenza ebraica in zona (confermata se non altro dalle stragi che i crociati compirono con la presa di Gerusalemme nel 1099). Una yeshiva (un centro di studio del Talmud) a Gerusalemme era già famosa al punto da attrarre studenti durante il XVIII secolo [5].

È dunque evidente come il desiderio degli ebrei di ritornare nella loro terra ancestrale risalga a ben prima del sionismo. Sionismo che non è quindi qualcosa di estraneo all’ebraismo, ma ne è il figlio, nato dall’unione col nazionalismo del XIX secolo ed uscito dall’ambito strettamente religioso, così da soddisfare il bisogno quasi fisico degli ebrei di tornare nella loro terra di origine, nella patria da cui tutto ebbe inizio.

Chi si dichiara antisionista, nel negare il legame inscindibile che gli ebrei hanno con la loro storica terra nativa, si dichiara in sostanza antisemita. È proprio questo legame che i cosiddetti antisionisti cercano disperatamente di recidere, sostenendo contro ogni evidenza storica che gli ebrei siano un elemento estraneo a quella terra.

La resistenza ai Romani

Terra che, conquistata dagli antichi romani sette secoli prima della nascita dell’islam, fu chiamata da loro, guarda le coincidenze, Iudaea, dal momento che vi trovarono tanti, tantissimi giudei (ossia ebrei) e nemmeno un palestinese. Furono proprio questi indigeni giudei, popolo semita praticante un monoteismo che mal si conciliava col paganesimo blasfemo dei dominatori stranieri, a insorgere in più occasioni contro i romani.

Se tutti hanno ben presente la Prima Guerra Giudaica [6] che portò alla distruzione del Tempio di Gerusalemme, poco nota è invece la Terza Guerra Giudaica, nel corso della quale gli ebrei riguadagnarono temporaneamente l’indipendenza con Bar Kokheba, che emise pure monete. La resistenza ebraica fu talmente disperata da richiedere ai romani l’impiego di ben 12 legioni per stroncarla, di cui almeno una sembra essere stata distrutta dai rivoltosi.

La reazione romana fu talmente dura da provocare 580 mila morti secondo lo storico Cassio Dione, il livellamento del Monte del Tempio ed il divieto per gli ebrei di vivere a Gerusalemme, ribattezzata Aelia Capitolina [7, 8]. Proprio in questa occasione il nome Palestina fu re-inventato dai romani col preciso intento di cancellare il legame tra giudei, giudaismo e Giudea; un popolo, una religione, una terra. Già due millenni fa era dunque chiaro quanto fosse tenacissimo un legame che secondo gli antisionisti di oggi non sarebbe mai esistito.

Così come seguirono altre rivolte, terminate puntualmente con la sconfitta e il massacro o la cacciata degli indigeni ebrei [9, 10]. In nessun caso gli storici antichi parlarono mai di un popolo palestinese, se non altro perché non è possibile che due popoli diversi siano indigeni della stessa terra. Lo conferma di fatto anche l’Onu con i criteri, pienamente applicabili agli ebrei in Giudea, delineati dall’antropologo José R. Martínez Cobo su chi possa essere definito indigeno [11].

L’accusa di colonialismo

Appare perciò del tutto infondata una critica spesso mossa al sionismo: quello di essere un movimento colonialista, volto ad espellere l’originaria popolazione palestinese. In realtà è vero l’esatto contrario: il sionismo è un movimento anticoloniale, perché si rifà alle aspirazioni della popolazione indigena ebraica, in opposizione all’imperialismo degli invasori arabi arrivati in Giudea molto tempo dopo.

Concetto di difficile digestione per chi creda che solo i cattivi bianchi europei siano stati colonialisti, e che l’islam e la lingua araba si siano diffusi dal Marocco all’Iraq con i commerci, e non con la spada e l’annientamento culturale di chi già abitava quelle terre.

Se oggigiorno appare impensabile e, prima di tutto disumano, deportare milioni di palestinesi da Gaza e Cisgiordania verso i Paesi arabi, non è certamente con la negazione dei fatti storici e del legame tra ebrei e Terra di Israele che si potrà trovare una soluzione ad una contesa che va avanti da decenni. Cercare una soluzione alla condizione disperata dei primi, non può e non deve avvenire facendo un torto ai secondi, privandoli di quanto hanno di più caro al mondo.

Ogni soluzione, frutto inevitabilmente di un compromesso in cui tutti dovranno cedere qualcosa, deve necessariamente tener conto che Israele è lì per rimanere come Stato ebraico, compimento di un processo iniziato molti secoli fa. Piaccia o meno a chi si dice ipocritamente antisionista ma non antisemita, dichiarando in sostanza di amare gli ebrei solo quando smettono essere ebrei.

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