Ebbene, principe, Genova e Lucca non sono più che appannaggi, possedimenti della famiglia Bonaparte. No, vi prevengo che se voi non mi dite che avremo la guerra, se voi vi permetterete ancora di palliare tutte le infamie, tutte le atrocità di questo Anticristo (parola d’onore, lo credo tale), non vi conosco più, non siete più mio amico, non siete più il mio servo fedele, come voi dite. Suvvia, buon giorno, buon giorno. Vedo che vi faccio paura. Sedetevi e raccontate.
Con queste parole, Lev Tolstoj, iniziava il suo monumentale Guerra e pace, nel 1869, e, quindi, paragonava Napoleone Bonaparte all’Anticristo. La letteratura storica ha spesso la straordinaria capacità di precorrere i tempi raccontando quelli già passati. Un insegnamento, quello degli scrittori classici, che rischia sempre più di assomigliare alla voce che si perde nel deserto, privando buona parte dei contemporanei dell’utilizzo di quella inesorabile clessidra con le quali sapevano misurare lo scorrere del tempo, oggi soppiantata dagli istantanei algoritmi dei nostri calcolatori.
La Russia di Tolstoj
Anche ai primi dell’Ottocento, l’epoca nella quale Tolstoj ambientò il suo più noto romanzo, si parlava molto di guerra, d’invasioni armate e d’incontrastabili potentati nelle mani di pochi uomini in grado d’imporre le proprie scelte al mondo. Guarda caso, la Russia, via via affiancata nella sua storia da importanti nazioni europee desiderose di ben figurare, era, per alcuni la soluzione e per altri il problema principale col quale confrontarsi in tutto il Vecchio Continente.
Ma era una ben diversa nazione da quella odierna, ridottasi a un coacervo di etnie sempre più sbilanciata verso Est e gravata dal malcontento dei nuovi poveri esclusi dalla spartizione dei pochi beni residuati dalla tragedia di due guerre mondiali un po’ atipiche, ove i vincitori russi si ritrovarono, di fatto, più poveri dei vinti.
Il dato più controverso di questa Russia, che non soltanto per un semplice lapsus linguae continuiamo spesso a chiamare Unione Sovietica, è quello della pervicace sopravvivenza delle sue aspirazioni imperialistiche, o comunque le si vogliano definire con termini più attenuati, mentre la coesione nazionale è ben lungi da quella dell’epoca di Guerra e Pace.
D’accordo, si potrebbe opinare se sia meglio un popolo pesantemente vessato dal potere centrale ma ragionevolmente felice oppure se l’iniezione gigante di dollari, Coca Cola, discoteche e computer, benché invocatissima nel 1989, non abbia manifestato effetti collaterali gravissimi ed apportato quella diffusa infelicità che vediamo oggi tra gli ex-sovietici.
Non credo che Vladimir Putin sia tanto fesso da coltivare in sé il ruolo dello Zar, non lo penso affatto, nonostante qualche analista occidentale (e non dimentichiamo che di occidentale, in Russia, non v’è quasi nulla) incautamente lo paragoni allo Zar di tutte le Russie.
Nello scacchiere internazionale di oggi contano più le armi e gli arsenali militari dell’immenso patrimonio culturale di un quasi-continente come la Russia, che ha giocato un ruolo tutt’altro che secondario principalmente nell’alta società – quella che decideva – di tutta Europa, per oltre tre secoli. Paradossalmente potremmo affermare che, armamenti e risorse naturali a parte, la Russia di oggi conta più per la sua estensione geografica (privilegio condiviso con l’ancor più grande Cina) che per la presenza di teste sopraffine e grandi ideologi, quasi tutti espatriati dopo la caduta del Muro.
La Russia di Putin
La vera grana è che tutti (e dico tutti) i russi si sentono ancora comunisti, ma è morto e sepolto il comunismo. Finito, impresentabile ed irrealizzabile nel terzo millennio, resiste nei cuori di gran parte dei russi. Rimane altresì profondamente radicato nelle istituzioni e nella struttura della Confederazione (altra balla che ci raccontano: esiste la Russia e resistono le nazioni suoi satelliti) .
Mi si perdoni l’eccesso di schematicità, ma è come se ai moldavi, ucraini, lituani ecc. avessero appiccicato una nuova etichetta in fronte e data una nuova bandiera in mano. Erano russi e si sentono russi. Semmai, e sono certamente giustificabili, ce l’hanno con Mosca quando i russi sparano loro addosso o bombardano le loro case. Vogliono, con tutte le ragioni, vivere in pace.
Il succo di questo spunto di riflessione è tutto qua. Siamo sicuri che non scorra, trasversale ed inconfessato dai più, un forte sentimento popolare favorevole al ritorno – difficile – ad una Grande Russia senza guerre interne e unica protagonista di quella rivalità tra le grandi potenze nucleari che, unicamente attraverso la deterrenza, ha garantito ben 80 anni senza una guerra mondiale? Oltretutto, consideriamo pure che dette potenze nucleari sono ormai tre, comprendendovi la Cina ed escludendo altre popolose e persino ricche nazioni che abbisognerebbero di qualche decennio ancora per essere vera una potenza nucleare.
Può dunque farcela Putin a catalizzare attorno a sé l’immenso consenso di un regnante vero e proprio? Difficile che ciò possa accadere, per una serie di motivi; primo fra tutti il suo curriculum: di estrazione sociale proletaria, ex ufficiale (ma mai capo) del KGB, pressoché sconosciuta la sua attività di politico prima della sua veloce scesa al Cremlino. Se volessimo essere un po’ snob, diremmo che la classe non è acqua. E di classe, Putin, non ne ha proprio, con buona pace dei sostenitori e degli avversari. Per dirla col citato Napoleone, difficilmente chi a cinquant’anni prendeva ancora ordini, non sarà mai un grande condottiero. Altro che sfidare l’allora inarrestabile Napoleone come fece lo Zar! Se lo scordino tanto i suoi amici che i nemici.
L’America di Trump
Verrebbe naturale, a questo punto, fare un balzo oceanico e fare qualche possibile parallelismo con l’America di Donald Trump, ma non ci cado: scusatemi, cari lettori, ma se ne sta parlando anche troppo. Tanto, l’unica espressione accettabile sul magnate col ciuffo è: “vedremo”. Faccio, invece, un accenno all’America, per rimanere nel tema di questo articolo. La domanda è una, secca: cosa sarebbero stati gli Stati Uniti d’America se non avessero dovuto continuamente confrontarsi e contrapporsi alla Russia, già dal 1915? Quanto l’esistenza dell’Urss prima e della Russia oggi influenzino la politica americana è sotto gli occhi di tutti.
La vera novità, semmai, è proprio il cambio di rotta di questa amministrazione americana: meno interesse per l’Europa, per la Nato, e magari un po’ di ridimensionamento della contrapposizione con la Russia, con la quale trattare a qualunque costo per le nazioni terze, tanto per togliersi il problema dal tavolo ovale. Molto più interesse per le questioni e necessità interne e ciò è esattamente quanto richiesto a Trump dai suoi elettori.
Influenza russa?
Per completezza, cerchiamo di dare risposta a chi, non senza qualche ragione, si chiede se al minor interesse d’oltreoceano per le questioni europee corrisponda una possibile maggior ingerenza russa, per colmare quel vuoto reso possibile da un Europa inesistente e rissosa. Lo riterrei possibile, ma posso sbagliare, soltanto se Putin fosse un grande stratega, cosa che, almeno finora, non ha dimostrato di essere. Addirittura l’Anticristo che i protagonisti di Guerra e Pace vedevano nel grande condottiero corso? Mi pare che la Chiesa, e non solo quella ortodossa, non ci pensi nemmeno a considerarlo tale. E poi, lo dico asetticamente, quanto conta ancora?
La Russia ha enormi problemi, perché non è una nazione coesa, un male comune all’Europa, e non credo possa essere Vladimir Putin il riunificatore, anzi, sono convinto del contrario.