Cultura

L’attualità di Cartagine, la libertà che fece paura

Una città fondata sul commercio, sulla tolleranza e sull’autogoverno, spazzata via da Roma perché troppo libera per esistere. Un esempio che ancora oggi ispira e inquieta

Cartagine (Rai)

Nel nostro tempo, Cartagine torna d’attualità per ragioni che superano la storia antica. In un’epoca segnata dal ritorno di imperi centralizzati, da nuove forme di controllo sui commerci, dalle limitazioni alla libertà individuale e all’iniziativa economica, essa appare come un’alternativa che fu temuta allora e che inquieta ancora oggi.

Si pensi alla pressione su piccoli Stati che basano la propria prosperità sulla libertà economica, come Singapore, Panama o le Isole Cayman, spesso accusati – come la città punica – di essere paradisi per il capitale e minacce per l’ordine costituito. O al tentativo di sopprimere modelli decentralizzati di governance, come le reti di criptofinanza, anch’esse fondate sullo scambio volontario e sull’autonomia individuale.

Anche i dazi e le misure protezionistiche tornano in auge come strumenti di ostilità verso chi commercia liberamente: dalla guerra commerciale Usa-Cina all’Unione europea, che impone barriere su tecnologie e prodotti extraeuropei, fino alla recente tassazione del Made in Italy nei mercati esteri.

Un modello di civiltà

La potenza africana, fondata dai Fenici, era odiata proprio perché commerciava senza chiedere permesso. In questo contesto, la stessa ci parla ancora. Quando nel 146 a.C. Roma la rade al suolo, non distrugge solo una città rivale, ma cancella un modello di civiltà. Una civiltà in cui il potere non era accentrato, la ricchezza non era un crimine e la religione non imponeva dogmi. Cartagine era la città del commercio, delle reti internazionali, del pluralismo etnico e religioso, dell’autogoverno attraverso un senato e magistrature elettive. Era, in una parola, troppo libera.

Polibio, lo storico greco antico, che l’aveva visitata, l’ha descritta nelle “Storie” come uno degli esempi più riusciti di repubblica mista, simile alla Roma dei tempi migliori. Ma ha aggiunto che la sua prosperità commerciale portò corruzione e decadenza, secondo una lettura in parte influenzata dal bisogno di giustificare la distruzione da parte romana. Egli stesso, altrove, ha ammesso tuttavia che le istituzioni cartaginesi, pur in decadenza, mantenevano un alto grado di funzionalità politica e stabilità.

Cicerone, a sua volta, nel “De re publica”, non ha mancato di riconoscerne il valore, sottolineando come la Regina del Mediterraneo occidentale sia riuscita a combinare aristocrazia e merito, stabilità e adattabilità: “Carthaginiensium civitas diutissime in optimo statu fuit” (“La città dei Cartaginesi godette a lungo di una condizione di massimo splendore”). Parole che pesano, considerando che provengono da uno dei più convinti assertori della superiorità romana.

La “città rete”

La punica Qart Hadašt era anche una città mercantile e marinara, dove l’iniziativa individuale era incoraggiata. Il potere non derivava dalla terra o dalla casta, ma dalla capacità di creare valore. Il suo impero, per quanto accusato di sfruttamento, si reggeva più su legami commerciali che su imposizioni militari. Come ha notato lo storico Serge Lancel, “non aveva bisogno di imporsi con la forza, perché offriva opportunità”. Era l’esatto opposto della sua rivale, la capitale dei Cesari, costruita sulla conquista e sul tributo.

Il confronto con Atene, Sparta e Roma è rivelatore. Sparta si fondava sull’oppressione interna, sulla disuguaglianza strutturale tra spartiati, perieci ed iloti; era nemica della ricchezza, della cultura, della mobilità. Atene, al contrario, era una democrazia radicale, spesso vulnerabile alla demagogia, alla mutevolezza delle folle e alla guerra continua. Roma, soprattutto nella prima repubblica, cercò un equilibrio, ma finì per sviluppare un sistema sempre più verticistico, imperialista, che non tollerava alterità.

Cartagine, invece, era aperta. La sua forza non stava nella capacità di conquistare, ma di attrarre. Le sue colonie, dalla Sicilia alla Spagna, erano avamposti di scambio, non di sottomissione. Anche nel culto, benché accusata dai suoi nemici di crudeltà, presentava tratti sincretici e pragmatici. L’accusa di sacrifici umani è oggi ritenuta, da molti studiosi, una costruzione propagandistica di matrice romana. La sua ricchezza, la sua libertà e la sua resilienza ne facevano un’anomalia intollerabile per una repubblica che si avviava a diventare impero.

È questa libertà a renderla invisa. Roma non poteva tollerare una potenza così diversa, così poco assimilabile. La patria di Annibale era la città-rete, non la città-fortezza. La sua antagonista, padrona del mondo antico, per imporre il proprio ordine, doveva cancellarla.

Più moderna dei suoi vincitori

La frase di Catone il Censore, “Carthago delenda est”, non era solo una strategia politica: era l’espressione di un’intolleranza verso un modello alternativo di civiltà. La distruzione di Cartagine fu l’estremo gesto con cui i romani affermarono la loro supremazia, convinti che dominare, anche ingiustamente, fosse preferibile al servire, anche giustamente.

La sua memoria venne infangata, la sua storia alterata. Eppure, chi legge le fonti con occhio libero ritrova nella città punica una lezione di tolleranza e autonomia: ci insegna infatti che si può prosperare senza dominare, commerciare senza opprimere, convivere senza uniformare. E in questo senso, essa appare più moderna dei suoi vincitori.

Un’anomalia liberale

In un tempo in cui si discute di globalizzazione, pluralismo e libertà economica, Cartagine merita di essere riscoperta. La sua storia ci racconta di una civiltà costruita sul commercio anziché sulla conquista, sulla cooperazione piuttosto che sulla centralizzazione. In un mondo sempre più ossessionato dal controllo, la vicenda di una città aperta, fiera e autonoma rappresenta al tempo stesso un monito e un’ispirazione.

Essa, in buona sostanza, è stata un’anomalia liberale in un contesto dominato da modelli autoritari, una città che fece della libertà la propria ragion d’essere, e che per questo venne colpita e infine distrutta. Ma il suo esempio continua a parlare. Oggi, chi difende la libertà individuale e il diritto allo scambio volontario trova nella fenice d’Africa non soltanto una lezione storica, ma anche un simbolo duraturo di resistenza contro ogni forma di assolutismo, sia politico che economico. Perché, come ha scritto Seneca, “Veritas numquam perit” (“la verità non perisce mai”).