Cultura

Seconda Parte

L’inizio subito impervio della spedizione “Endurance”: la corrida con gli iceberg

Storia gloriosa di uno straordinario insuccesso, la seconda puntata. Inizio subito critico per le condizioni meteo-marine, navi bloccate tra i ghiacci

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SECONDA PARTE

Il quattro di gennaio 1914, Ernest Shackleton, con il ruolo di comandante dell’imbarcazione Endurance e dell’intera spedizione antartica, lasciò l’isola South Georgia, nell’estremo Atlantico del Sud, a circa mille miglia da Capo Horn, per affrontare l’ultimo tratto di mare prima dell’Antartide.

La spedizione, composta da 28 uomini ed oltre 100 cani da slitta, imbarcati sull’ammiraglia Endurance e sulla nave-appoggio Aurora, era partita dall’Inghilterra il primo agosto di quell’anno e, soltanto tre giorni dopo, aveva appreso che era scoppiata la Prima Guerra Mondiale, al punto che dovette contattare l’ammiragliato britannico per sapere se per lui ed i suoi uomini vi fosse un ordine di richiamo alle armi.

Inizia la traversata via terra

Avuta risposta negativa, in considerazione della grande importanza scientifica e storica della missione, patrocinata dalla Royal Geographic Society, le navi proseguirono la rotta verso Capo Horn, ed il 14 gennaio 1914 entrò nel Mare di Weddell, ove si accinse a cercare il miglior punto di attracco per iniziare al meglio la traversata coast-to-coast dell’Antartide, via terra.

I cani stavano bene (Shackleton aveva rinunciato all’utilizzo dei ponies siberiani, utilizzati nella precedente missione del Nimrod, preferendo impiegare gli Husky e i Malamute dell’Alaska) e gli uomini, tanto i marinai che gli scienziati (tra i quali meteorologi, geologi, cartografi, biologi) erano pronti ad iniziare la monumentale opera di rilevamento cartografico (allora ancora inesistente) dell’intero continente di ghiaccio, oltre alla raccolta delle evidenze scientifiche che si erano prefissati.

Condizioni subito critiche

Nonostante nell’emisfero australe fosse ancora estate, apparve subito assai critica la navigabilità di quel luogo, resa più difficoltosa dai numerosi iceberg galleggianti e dalle condizioni meteo-marine insolitamente avverse, proprio nei giorni in cui avrebbero potuto aspettarsi una navigazione relativamente tranquilla.

Il sermone

Il comandante Shackleton ben sapeva che un inizio tanto preoccupante poteva costituire un ostacolo enorme alla buona riuscita della sua spedizione e, istintivamente, non poté fare a meno di ricordare il sermone del pastore McGuyre, che aveva ascoltato il giorno prima di partire dalla confortevole isola South Georgia, ultimo avamposto di civiltà, nella graziosa e pulitissima chiesa di quel villaggio di pescatori.

Forse a conoscenza della missione che stavano per intraprendere quegli uomini coi giacconi di gabardina Burberry, tutti in piedi in fondo alla chiesa, il celebrante aveva esortato alla perseveranza ed alla resistenza alla fatica (endurance in inglese) come una virtù da buoni cristiani. Mentre ripensava al sermone ed alla chiesetta, Sir Ernest, sorridendo impercettibilmente, si disse: “È solo l’inizio, uno stupido, insignificante inizio” e subito tornò con la testa china sul tavolo del navigatore a studiare la miglior rotta.

Il biologo Clarke osservava, tutto assorto, le balene che sbucavano improvvisamente tra gli squarci dei ghiacci e si rituffavano fragorosamente tra i flutti candidi e gelidi di Weddell, affiancato dall’operatore cinematografico Hurley, che si teneva proteso quasi fuori bordo, assicurato con una cima ad una bitta, per filmare quelle creature imponenti che sembravano dare una sorta di sinistro benvenuto alle due navi, che procedevano in fila. Soltanto l’ufficiale di macchina, Rickinson, incrociato lo sguardo corrucciato del comandante, scese sottocoperta borbottando un “Meglio dare una controllata ai motori…”, come se presagisse qualche guaio da lì a poco. E i guai non tardarono di molto.

Il comandante

Shackleton apparteneva a quella residuale parte dei grandi comandanti che non assomma in sé le solite caratteristiche che siamo soliti vedere al cinema o leggere nei grandi romanzi di mare: egli non era affatto burbero e di poche parole, dai modi sbrigativi e dal vestire un po’ trasandato che incontriamo in tante storie di mare. Al contrario, egli era affabile, elegante e di buona conversazione. Sembrava la rappresentazione vivente di certe doti carismatiche che sfuggono agli stereotipi e che dipendono da un carattere e da una volontà di ferro, riservando tuttavia a se stesso il piacere di qualche agio, ma sempre sapendosi mettere nei panni altrui e senza mai vantarsi delle proprie capacità.

Molto amato, più dai suoi equipaggi che dai colleghi, che lo ritenevano un po’ troppo raffinato e snob, Sir Ernest era animato da una voglia di conoscere sempre nuove cose e nuove terre, senza mai fermarsi per godere di quel po’ di celebrità di cui, quando partì per la spedizione del 1914, già godeva in patria.

Ogni minimo particolare strutturale della Endurance e della sua “scorta” Aurora era stato curato nel dettaglio ed egli stesso ne aveva seguito personalmente l’allestimento, poiché non voleva che nulla fosse lasciato al caso, anche a causa del fallimentare esito della missione Scott, dalla quale era stato congedato anzitempo e dal risultato non compiutamente raggiunto dalla precedente missione del Nimrod, che forse aveva soltanto sfiorato il Polo Sud, senza averne l’ufficialità.

Sfida tra i ghiacci

La situazione si fece più grave quattro giorni dopo, quando una violenta tempesta si abbatté sul Mare di Weddell, costringendo le due navi a procedere più distanziate, per sicurezza. La ridottissima visibilità ed il mare, sempre più denso di ampi blocchi di ghiaccio staccatisi dalla banchisa, costringeva i vascelli a procedere a zig-zag per evitare i blocchi più grandi e compatti.

A bordo dell’Endurance, Shackleton diede ordine di ridurre al minimo i turni di riposo, fin allora destinati al sonno o alle interminabili partite a carte tra i componenti l’equipaggio a cui, non di rado, partecipava lo stesso comandante. Adesso, gli occhi puntati su quel poco di mare che si intravedeva tra gli spruzzi di schiuma e la neve che sibilava, sospinta dal vento, quasi orizzontalmente, non erano mai abbastanza e le urla degli avvistatori, non soltanto degli esperti marinai ma persino quelle degli scienziati a bordo, erano pressoché continue ed a Shackleton non rimase che procedere ad ogni costo, nonostante gli urti con le masse di ghiaccio, sempre più frequenti contro le murate della nave, che a tratti procedeva a macchine su “indietro tutta” per attutire le collisioni inevitabili.

Fermare la nave sarebbe stato come bloccarla tra i ghiacci. Anche l’espertissimo Thomas Worsley, al quale il comandante si rivolgeva amichevolmente col soprannome “Skipper”, stava iniziando a dubitare che la pur tenacissima struttura dell’Endurance potesse non reggere oltre, dopo tante e tali collisioni. Era uno spettacolo infernale, come se un toro infuriato stesse continuando a prendere a cornate ogni ostacolo gli si parasse davanti, caricandolo con furia cieca, ora arretrando un poco per darsi forza ed ora tornando, con la forza della disperazione, alla carica di un avversario immaginario che sapeva troppo forte per lui.

Il motore sbuffava e sembrava stesse per spegnersi da un momento all’altro, ma sempre riprendendo dopo pochi secondi, con quel battito vitale che faceva la differenza tra un vascello a vele ammainate ed una nave che, sia pur lentamente, procedeva con le sue migliaia di cavalli vapore nerofumo su un mare che di orizzontale non aveva più nulla.

“Sir, devo farle un rapporto importante”, disse con solennità il comandante in seconda, Wild. La cui voce sovrastava appena il furioso abbaiare dei cani, terrorizzati nelle loro gabbie.

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