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Disgelo Usa-Russia? Da Biden una mano tesa a Berlino che diventa un regalo immeritato a Putin

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La settimana appena trascorsa ci ha lasciato due importanti novità sul fronte dei rapporti russo-statunitensi. Da una parte l’incontro in Islanda tra i rispettivi mandatari degli Esteri, Blinken e Lavrov, conclusosi con una generica ma significativa dichiarazione di intenti verso una “relazione più stabile e prevedibile”; dall’altra, la rinuncia di Washington a rinnovare le sanzioni inflitte alla società costruttrice del gasdotto Nord Stream 2 e al suo massimo responsabile, quel Matthias Warnig già agente della Stasi e grande amico di Vladimir Putin. Solo due mesi fa, nel corso di un’intervista televisiva, il presidente Biden aveva definito il suo omologo russo un “killer”, parole a cui era seguita l’escalation bellica al confine con l’Ucraina e l’invio di due navi da guerra americane in direzione Mar Nero, poi rientrate alla base prima di raggiungere la zona di conflitto. Gli avvenimenti di questi giorni sembrerebbero quindi indicare un’inversione di tendenza rispetto alle tensioni degli ultimi mesi e un possibile riavvicinamento tra la superpotenza americana e Mosca, che dovrebbe concretizzarsi nell’incontro tête à tête tra i due leader, annunciato per i prossimi mesi ma non ancora confermato. Ma a cosa si deve questo improvviso cambio di prospettiva e, soprattutto, può davvero considerarsi tale?

La premessa essenziale da cui occorre sempre partire è che gli Stati Uniti, mentre considerano la Cina un rivale strategico che pone una minaccia esistenziale, vedono la Russia principalmente come un avversario tattico, come tale spendibile a fini di politica interna e internazionale sui vari scenari dello scacchiere geopolitico. Ciò non significa che ne sottovalutino il potenziale destabilizzatore ma confidano di poterlo neutralizzare e gestire più facilmente. Washington non crede, forse sbagliando, alla convergenza sino-russa: non concepisce che Mosca possa consegnarsi a una potenza egemone sulla porta di casa e, in fondo, è convinta di poter riportare a tempo debito la Russia all’interno di un fronte occidentale in funzione anti-cinese. È una scommessa rischiosa ma non insensata. I russi sono in difficoltà, l’economia stenta, le tensioni domestiche crescono, Putin si avvia ormai all’ultima fase del suo mandato e l’immagine del suo Paese all’estero è fortemente compromessa. La Russia preoccupa ma non fa paura e, come dimostrato anche dal meeting Blinken-Lavrov, si dimostra recettiva ad ogni segnale di apertura che possa giungere dalla Casa Bianca.

Il Cremlino, al di là della retorica, sembra cercare costantemente il riconoscimento americano e anche le schermaglie belliche con l’Ucraina possono essere lette come il tentativo di costruirsi un capitale politico da far valere sul piano diplomatico. Il calcolo di Washington è che nei momenti di difficoltà dell’avversario ci si possa permettere di allentare la pressione, di percorrere la strada della normalizzazione delle relazioni, di ricucire gli strappi, per potersi concentrare su scenari considerati più urgenti: è lo stesso movimento che nel corso degli anni, e delle amministrazioni, ha caratterizzato le relazioni con l’Iran, più tese quando il regime degli ayatollah ha dimostrato maggiore assertività, più “diplomatiche” quando i problemi interni ne hanno messo in luce le debolezze.

Come già analizzato in un precedente articolo, l’esigenza fondamentale degli Stati Uniti è il mantenimento della stabilità in Europa che, tradotto, significa evitare che la Germania si affermi come un polo di riferimento autonomo in contrapposizione a Washington e che si consolidi un ipotetico asse russo-tedesco nel cuore del continente. Fino a pochi giorni fa la reazione americana a questa doppia minaccia è consistita in un’opposizione ferma sia al completamento del Nord Stream 2 che agli accordi commerciali con la Cina promossi da Berlino. È verosimile che Biden si sia ritrovato con troppi fronti aperti contemporaneamente e abbia deciso di chiudere qualche dossier per non perdere il controllo di una partita in cui è allo stesso tempo arbitro e giocatore.

Da qui la sostanziale rinuncia (anche se formalmente Blinken ha ribadito la contrarietà americana) a ostacolare il completamento del gasdotto che collegherà Russia e Germania attraverso il Baltico, in cambio di una non meglio precisata “compensazione” promessa da Berlino nei confronti dell’Ucraina, i cui interessi economici e geopolitici risultano pesantemente compromessi. Ma soprattutto in cambio – e questo collegamento non mi pare di averlo visto sottolineato altrove – del congelamento da parte del Parlamento europeo dell’accordo sugli investimenti con la Cina (CAI), approvato a larghissima maggioranza in sessione plenaria, e che Merkel ha dovuto incassare a denti stretti. Il regalo di Bruxelles è arrivato proprio mentre si prepara il triplice appuntamento europeo di Biden a metà giugno (G7, vertice Ue e Nato), che le rispettive diplomazie non possono fallire se vogliono accreditare la tesi tanto propagandata in campagna elettorale del “riavvicinamento” tra le due sponde dell’Atlantico.

In questo contesto ben venga – ragionano a Washington – una mano tesa alla Germania per stemperare le recenti tensioni in attesa delle elezioni di settembre (ma anche se vincessero i Verdi sarà forse tardi per invertire la rotta), cedendo su un Nord Stream 2 ormai in fase troppo avanzata per essere fermato e portando a casa la vittoria del no europeo al CAI. Poco importa se la distensione rischia di favorire oggettivamente gli interessi di Mosca, che sulla penetrazione energetica in Europa sta puntando tutto o quasi. Da qui le critiche di alcuni rappresentanti Repubblicani al Congresso, secondo cui la decisione di sospendere le sanzioni manderebbe un segnale di debolezza a Putin e di scarsa affidabilità agli alleati americani nella regione, Paesi Baltici e Polonia in primis. Proprio sabato scorso, durante un incontro con i giornalisti, il vicepremier polacco Kaczyński ha dichiarato che la Polonia dovrà “sviluppare al più presto le proprie capacità militari”.

Dal momento che le politiche degli Stati in ambito internazionale si giudicano non dalle intenzioni ma dai risultati, quel che sembra a prima vista un atteggiamento realista, dettato da considerazioni pratiche e non ideologiche, potrebbe in realtà provocare per l’amministrazione Biden un effetto boomerang. Innanzitutto perché è abbastanza curioso che sotto il filo-russo Trump gli Stati Uniti abbiano imposto le sanzioni e sotto l’anti-russo Biden vi rinuncino adducendo nientemeno che motivi di “interesse nazionale”: fino a ieri la priorità americana non era precisamente bloccare il raddoppio del gasdotto? In secondo luogo perché la tattica delle concessioni per ottenere concessioni, se può funzionare con alleati riottosi nei cui confronti Washington mantiene comunque un elevato potere contrattuale, normalmente fallisce se applicata a potenze antagoniste e attivamente impegnate in azioni di contrasto, come nel caso russo.

Infine perché, come sottolineato da Federico Punzi a proposito della crisi mediorientale, l’apparente incoerenza fra dichiarazioni di principio e azioni concrete, unita a una ancora embrionale ma già visibile tendenza all’appeasement e al ribaltamento (questo sì di carattere ideologico) delle politiche trumpiane, rischia di risvegliare le velleità mai sopite dei governi e delle organizzazioni non statuali ostili agli Stati Uniti e ai suoi alleati. La distensione con Mosca ha senso in una prospettiva di lungo periodo ed è probabilmente un percorso necessario nel contesto della contrapposizione Cina-Occidente: ma nell’immediato – con Putin ancora saldamente in sella, in piena deriva autoritaria e con ambizioni espansive nell’estero vicino – è uno strumento da maneggiare con cura, pena il deterioramento di quella stabilità regionale che si pretende di rafforzare.

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